Racconti dall'ospizio #40: Sapore di MAME - Seconda parte
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
La prima parte del racconto si trova qui. Potremmo riassumervela, ma perché! Leggetevela, se non l’avete ancora fatto, perdìo!
Date: 6 febbraio 1997
From: ababich@dsc.unibo.it
To: nsalmoria@dsi.unisi.it
Caro Nicola Salmoria,
non ci conosciamo ma sono un universitario come te e grande appassionato del MAME, il tuo emulatore. Sì, lo so che è nato solo tipo ieri, ma sono sicuro che diventerà il più importante emulatore del mondo! Se posso darti un consiglio, è molto importante che d’ora in poi i coin-op da emulare vengano scelti con grande cura, release dopo release. Fidati di me che me ne intendo: il prossimo gioco da emulare è la versione arcade di Burger Time! Piace molto alle ragazze e si sa quanto sia importante per l’emulazione guardare a ambo i sessi. La cosa migliore sarebbe se tu lo emulassi entro stas...
*CANC*
Tutto sommato l’idea che avevo avuto era un’idea abbastanza del cazzo.
Nemmeno sotto minaccia armata, andando a prelevarlo in quel di Siena, avrei convinto Nicola Salmoria a emulare da un giorno all’altro Burger Time. Ci avevo pensato sul serio. No, non di sequestrarlo. Di raccogliere freneticamente tutta la documentazione disponibile sulla scheda, di inviarla a Salmoria, promettendogli in cambio soldi e prodotti tipici del Friuli Venezia Giulia e financo della Slovenia. Tentai anche, tramite il Parri, di contattare soggetti in grado di programmare un driver per il MAME in fretta e furia - ma era tutto inutile: il MAME esisteva da due giorni, e chi diavolo ci aveva mai messo mano?
Il paradosso è che io Burger Time da sala giochi ce l’avevo. L’avevo trovato su un sito pieno di ROM di giochi da sala, dei dump creati come copie di backup da un noleggiatore del Connecticut di nome Salvino. Tuttavia erano solo i dati: totalmente inutili senza un interprete in grado di far girare quei dati nell’architettura di un PC, così differente da quella del cabinato. Eravamo sempre là: senza un emulatore, non avrei potuto giocare al gioco dell’amore.
Pensavo velocemente, iteravo sui miei stessi pensieri con fredda lucidità - dono dell’adrenalina - e poi li scartavo uno ad uno in quanto poderose minchiate. Il Parri, da par suo, la soluzione più brillante l’aveva già trovata, solo che non volevo accettarla.
“Babich, sono passati quindici anni da quando Eliana giocava a Burger Time. Era piccola. Non è una maniaca dei videogame. Probabilmente i suoi ricordi in merito sono confusi…”
“E quindi?”
“E quindi prendi una delle conversioni di Burger Time che gira su uno dei sistemi già emulati! Non sarà uguale identico all’originale, ma alla fine le dinamiche sono sempre quelle, no?”
“Ma è barare”.
“Sei tu che hai barato da principio promettendole un gioco che non è ancora emulato!”
“Quello era bluffare, non barare!”
“Ma si bluffa per far sì che l’altro lasci, non se vuoi che venga a vedere! E tu vuoi che veda!”
“Ma soprattutto che venga”
“... Dai su, cerchiamo bene. Di Burger Time esiste una conversione per praticamente qualsiasi sistema a 8 bit. Forza, facciamo una ricerca sui soliti FTP”
I “soliti FTP” erano posti più o meno noti, più o meno legali, dove smanettoni premurosi mettevano a disposizione la libreria completa dei dump fino a quel momento disponibili per uno o più sistemi. Bam! Tutte le ROM del Colecovision, eccole qua sull’FTP, probabilmente russo, ftp.komkon.org. I dump dei floppy del Commodore 64? Sull’FTP norvegese di Arnold. Sapevo muovermi. Avevo la tecnologia. Ma soprattutto, Eliana non ne capiva una mazza di retrogaming. Parri aveva ragione. Non si sarebbe mai accorta che la stavo gabbando bellamente con un bieco surrogato, bieco quanto il mio spirito, bieco quanto quello di un anziano Moroboshi dalla proboscide frustrata. Una conversione per console o home computer era tutto quello di cui avevo bisogno. Sfoderai il mio portafloppy da 10 e mi misi a scartabellare.
Dunque. Storicamente, la conversione più apprezzata era quella Intellivision. Da scartare perché, mortacci sua, nemmeno quello era ancora emulato (novembre 1997, se non erro - ed eravamo appena a febbraio). Ricordavo dalla mia infanzia una versione per Commodore 64 che, riprovata, si rivelò una versione pirata programmata dalla Interceptor Micros con un povero cuoco con la sciatica, senza musichina e con tanta morte nel cuore. Ottima, praticamente arcade perfect, la versione NES, ma purtroppo tutti gli emulatori di cui disponevo (iNes craccato e Pasofami) non mi permettevano di andare full screen, e giocare in finestra Windows mi sembrava poco immersivo per una che, l’ultima volta, aveva goduto di Burger Time nella bambagia tabagista e raccolta di un bar di provincia. Va anche detto che iNes craccato bombava a ogni pie’ sospinto, e Pasofami era interamente in giapponese; anche volendo capirci qualcosa, in quell’epoca così poco globale, al massimo visualizzavo stringhe tipo ƒpƒ\ƒtƒ@ƒ~‚ª³í‚ÉI—¹‚µ‚È‚©‚Á‚½ê‡‚ÍAÝ’èî•ñ‚Í•Û‘¶‚³‚ê‚Ä oppure ‚¢‚Ü‚¹‚ñ‚Ì‚ÅAŽŸ‰ñA‹N“®Žž‚ÉÄݒ艺‚³‚¢B. La versione Game Boy era una meraviglia, rivisitata, espansa, con musichette poppettose e tanto amore… e uno schermo in bianco e verde e una infedeltà al coin-op tanto lodevole quanto inutile ai miei fini. MSX: merda. Spectrum: due cloni made in England, Barmy Burgers e Mr Wimpy, a cui prima o poi va dedicato un monumento in sterco di mucca dello Yorkshire.
In ultimo, tutto sommato fuori dal mio radar, ecco stagliarsi glorioso il floppy coi giochi del Colecovison. E - ta dah! - Burger Time per Coleco sa il fatto suo. C’è un momento in cui un uomo, financo un ragazzo, può abbandonarsi all’espressione facciale del Dr. Slump. Quel momento era arrivato. Preparai il floppy con emulatore, ROM e pure un file batch clickme.bat, cosicché Eliana potesse giocarci comodamente a casa propria senza sbatt…
Ehi, ma che a casa propria. Idiota! Cancellai il .bat. Se le avessi dato un floppy autosufficiente, avrebbe semplicemente preso il floppy e ciao. È la logica. Arrivederci e grazie. Doveva aver bisogno di me, per far partire il gioco. Quello nerd che ne sa di computer, internet e giochini. Elemento trascurabile della razza umana che diventa di colpo la chiave per schiudere la più deliziosa e struggente delle madéleine. E dove c’è una chiave, c’è una serratura. E…
“Il laboratorio chiude, andate a studiare, zippies” intimò Arturo, il tecnico di laboratorio. L’appellativo “zippie” l’aveva letto su un numero di Wired, cui via Toffano era abbonata. Lo zippie sarebbe dovuto essere una specie di nerd with a cause, libera condivisione della cultura, volemose bbene e semo hippie nell’era dello .zip. Ma io non ero uno zippie. Io ero un lurido calcolatore, un finto gentile, una chiave alla ricerca della serratura.
Pomeriggio in via Orfeo con i miei compagni d’appartamento, tutti un po’ a far finta di studiare, ognuno un po’ perso nei propri pensieri, ognuno a cercar di far quadrare la propria vita a suon di ragionamenti. Per una volta, mi tenni la storia dello strano incontro con Eliana tutta per me. Mi crogiolavo nel pensiero di quello che sarebbe potuto succedere. In termini sessuali, proprio. Non volevo soffermarmi troppo sulle scarsissime probabilità che un floppy con Burger Time davvero facesse cadere tra le mie braccia la bella ed elusiva fanciulla. Non era quello il punto e, soprattutto, un piano puerile non può andar troppo per il sottile.
A cena, però, parlando con i miei compagni venne fuori che tutti, da impeccabili fuorisede, si sarebbero tolti di torno l’indomani intorno all’ora di pranzo. Venerdì, il giorno della partenza. Scoppiai a ridere in maniera inquietante. Dr. Slump forever. Resistetti alle loro domande. In fondo, con tutto l’affetto del mondo, mi ritenevano uno sciroccato, quindi non insistettero nemmeno troppo. Feci una copia ulteriore di sicurezza del floppy - vai a sapere che non si smagnetizzasse nel corso della notte sotto l’influenza di energie lunari malevole - e mi coricai di buon’ora, alle tre o alle quattro del mattino, da bravo universitario.
Venerdì, 7 febbraio 1997
All’apertura del laboratorio di via Toffano ero lì, pronto, come un soldato che non può esimersi dal suo compito. Mi sedetti a una postazione simulando una qualche ricerca a scopo didattico. Il tempo passava. Nessuna Eliana in vista. Facevo la spola tra il PC e il giardino, sia mai che m’aspettava fuori. Non m’aspettava fuori. Tornavo dentro, sia mai che entrasse dalla porta sul retro e mi aspettasse dentro. Non m’aspettava dentro. Fissavo il floppy sulla cui etichetta avevo disegnato con un Tratto Pen e gli Stabilo una riproduzione artigianale della cover di Burger Time Intellivision. Alle 14:00 la temuta frase di Arturo: “Il laboratorio chiude, andate a studiare, zippies”. Ma vai a quel paese, altro che zippie. Ero il solito mona, tutto qua. Perché ciò che per me era così importante non necessariamente doveva esserlo per lei. L’aveva buttata là così, per imbarazzo, che voleva rigiocare a Burger Time. Era stata una reazione conseguente alla mia destabilizzante uscita “Dimmi cosa posso fare per te e lo farò. Qualunque cosa. Qualsiasi cosa”. Imbarazzata, ha giocato la prima carta che le veniva, la sfuggente poker lady.
Lasciai via Toffano. Sconsolato, mortificato, ma col passo lentissimo di chi comunque ci spera ancora. Percorsi la via al rallentatore fino a raggiungere Piazza Carducci.
Mi sedetti su una panchina e accesi una Diana blu. Avrei voluto fumare una Seven Stars come faceva Murakami, ma le vendono solo in Asia. Che giornata di
“Andrea!”
Nessuno mi chiama Andrea. Nemmeno mia madre mi chiamava Andrea. Quindi, di chi era quella voce femminile, familiare ma insolita a chiamarmi?
“Scusa il ritardo, ma ero a ricevimento da Calzolari e non arrivava mai, e allora…”
“Ma figurati Eliana, io…”
“Chiamami Eli. Nessuno mi chiama Eliana”
“Chiamami Babich. Nessuno mi chiama Andrea”.
Ah, se i botta e risposta venissero sempre così bene. Fortuna che vennero così bene in quel momento. Ci stava tutto, e mi permise anche di lanciare il mozzicone di sigaretta con accettabile efficacia bogartiana (voto reale sulla scala Bogart: 6/10).
Scoppiammo a ridere, perché comunque i botta e risposta troppo affilati, quando li superi e torni alla goffa realtà comunicativa da esseri non di celluloide, vanno comunque stemperati.
Lei era: trafelata, quindi più umana. In ritardo, quindi vagamente in colpa anche se di orari non si era mai parlato davvero. Motivata a incontrarmi, perché se era a ricevimento da Calzolari proveniva dalla direzione opposta. Aveva raggiunto il Dipartimento e, trovandolo chiuso, lo aveva superato sperando di beccarmi sulla via di casa. Questo però ancora non lo sapevo, e infatti là per là non ci avevo pensato. Era una cosa, ancora una volta, troppo filmica da farsi per la Eliana, pardon, Eli, che avevo in testa.
Lei era: bella come il giorno prima. Come sempre. Con l’aggravante della trafelatezza, perché a febbraio a Bologna uno è abbastanza bardato, e se ti metti a correre sotto i vestiti un po’ t’accaldi. Vapori. Mmh. Ecco.
“Allora, Babich!” Eh? Ah, sì, mi stava parlando. “Mi avevi promesso una cosa, no? Il cavalier servente dei videogiochi…”
Cavalier servente dei videogiochi. Anvedi. Be’, faceva Scienze della Comunicazione mica per niente. Bel epiteto. Arrossii (voto reale sulla scala Bogart: 0/10). “Ehaem Sì! Ho il floppy con Burger Time”.
“Grande! Prometti e mantieni, eh!” Non capivo. Era spigliata, sorridente, trasfigurata, un’altra persona rispetto a quella che io e gli altri estimatori del suo seno marmoreo eravamo soliti stereotipare. Era soprattutto radiosa. Di colpo ebbi la netta sensazione che sì, quello fosse un appuntamento. Questa percezione mi intimidì in modo devastante. Sapete cosa fanno i timidi in questi frangenti? Se la danno a gambe. Non vorrebbero. Vorrebbero l’opposto. Restare. Ma è impossibile, pensano con le gambe. E le gambe pensano: “VIIIAAAAA” detto con la voce di Roberto del Giudice.
“Ecco il floppy tieni, ora devo andare che…” Tutto in me tradiva l’improvviso disagio. Eliana, in reazione a ciò, altrettanto repentinamente sfoderò il “grugno da Eliana as we know it”. Contrariata. Confusa, perché insomma, Babich, fai tutto ‘sto casino per uscire con me e poi scappi?
Ma non potevo scappare. Perché anche se i miei tacchi avevano già cominciato a girare, la mia mano col floppy in mano restava là, protesa, senza che lei accennasse a prenderlo. Mi fissava impietosa, offesa dal mio comportamento, dal mio gioco poco chiaro. E l’improbabile posa contorta in cui stazionavo davanti a lei cominciò a durare un po’ troppo, così come il silenzio.
Ancora una volta, il silenzio e l’attesa furono la panacea di tutti i mali della mente bacata babichiana, perché stare col braccio proteso in avanti, i piedi al’indietro e la spina dorsale a fusillo dopo dieci secondi di silenzio diventa impossibile. Sospirai e mi ricomposi, assumendo una postura vagamente remissiva, con un sorriso imbarazzato che quasi chiedeva pietà. Ma Eliana non aveva nessuna intenzione di graziarmi. Non potevo auto-squalificarmi dal gioco proprio ora. Ma perché, poi.
“Come funziona questo gioco?” Nella confusione assoluta del momento, non riuscivo a intuire se parlasse di Burger Time o della mia ritrosia di fronte all’agognato appuntamento. O a entrambe le cose. “Metto il dischetto e parte?” “Be’ no, c’è un eseguibile DOS ma devi impostare da linea di comando dei parametri e…” “E sicuramente non sono in grado di farlo senza diventare matta. Voglio giocare al gioco degli hamburger, mica studiarmi parametri del DOS, ora che c’è Windows!” Pausa. Una pausa con un unico significato, senza troppi giri di parole, anzi, proprio senza parole: fuori le palle, Babich. Ora o mai più. Eliana non perdona, Paganini non ripete, il treno passa una volta sola eccetera.
Il coraggio nasce da una frazione di secondo in cui ci si rende capaci di non pensare. Nel vuoto di pensiero, sgravati dal peso dei ragionamenti, tutto sembra, se non più facile, possibile. E mentre quel corroborante attimo di silenzio mentale si spegne, resta una proposizione risolutiva, e non ti stai più a chiedere se può funzionare o meno. Fare o non fare, non esiste provare, diceva quello.
“Eli.”
“Babich.”
“Eli. Vieni a casa mia.”
Eliana sospirò, e il sospiro diventò un misurato sorriso, e il misurato sorriso diventò compiaciutezza, perché io avrò anche avuto in mano un floppy con Burger Time per Colecovision, ma lei aveva un coltello di mezzo metro dalla parte del manico. “Sei un tipo complicato, Babich, ma l’etichetta del floppy è molto carina”. Ci incamminammo verso la poco lontana via Orfeo.
Lungo il tragitto si fece, di tacito accordo, un piccolo reset. Niente Burger Time, niente tensione dialettica, parlando del più e del meno, del suo ricevimento da Calzolari, di Scienze della Comunicazione, e che complementari hai scelto, e hai già mangiato e no che non ho mangiato e prendiamoci una pizza al trancio, e buona questa pizza al trancio, e
Eravamo a casa. Prima di farmi prendere dall’ansia, prima di qualsiasi cosa, mi avventai sul Pentium e lo accesi. Come a dire: OK, è per questo che siamo qua, non ti ho mica portato a casa con chissà quali diaboliche intenzioni.
“Quasi non sembra una casa di studenti”, commentò Eli, rincuorata di non doversi destreggiare tra cumuli di biancheria sporca. Lei, che viveva ancora con i suoi e sembrava rifuggire il concetto stesso di fuorisede brutto, sporco e con le magliette degli Smashing Pumpkins. In effetti l’appartamento era in uno stato addirittura decente: letti fatti, un inspiegabile profumo di pulito. Gloria ai miei inquilini, sicuramente più ordinati di me.
Preparai due sedie davanti al PC, già in modalità MS-DOS. Tutto pronto per lo spettacolo. The great videogame swindle. Scrissi nel prompt dei comandi “colem.exe” più i necessari parametri. Eli osservava con grande attenzione, strano non avesse tirato fuori il quaderno degli appunti, perché l’espressione era la stessa che aveva a lezione.
“Cos’è Colem?”
“È l’eseguibile che fa partire il gioco. ‘Em’ sta per emulator. L’eseguibile dice al Pentium: non sei un Pentium, sei un hardware vecchissimo degli anni Ottanta. A quel punto gli si dà in pasto i dati di Burger Time, e il Pentium, come ipnotizzato, li capisce e li esegue anche se in teoria non dovrebbe”. Finalmente un po’ di gloria dopo i passi falsi: giocavo (letteralmente) in casa ora, e sul mio turf non poteva battermi.
“Eh, la fai sembrare quasi magia. Alla fin fine è un interprete, no?” Wow, che commento pertinente. Ma in effetti perché mai dovevo assumere che fosse una cretina? C’era, dietro i miei credo progressisti, ancora una briciola di stereotipizzazione, della serie “i computer sono roba da maschi”. Mi sentii io, il cretino. La guardai con la coda dell’occhio. Era completamente assorbita nell’osservazione dei parametri che aggiungevo da prompt. Bella come mai, con il pallore del volto dipinto del riflesso azzurro del tubo catodico nella stanza in penombra.
“OK, ‘Em’ sta per emulatore, ma COL per cosa sta?” Ragazza curiosa, ma chettefrega, sta per Coleco che NON è l’hardware da sala giochi su cui giocavi a Burger Time bensì una console domestica, ma questo non te lo voglio dire sennò casca il palco. “COL è l’abbreviazione di COLECO, che a sua volta è la crasi di Connecticut Leather Company” “Ah ah! Ma che c’entrano dei produttori di pellami del Connecticut con i videogiochi?” “Be’, negli anni Ottanta producevano anche hardware, forse perché i pellami non tiravano più tanto”. Complice l’assurdità del pellame, desistette dal fare ulteriori domande. “Ecco, Eli. a te l’onore di premere INVIO”.
Stok. “Mattel! Ma c’è scritto Mattel! Ahahah! Quelli del pellame che fanno hardware, quelli della Barbie che fanno Burger Time… Ma sei sicuro che non mi stai prendendo in giro?” Grunt. Avevo sottovalutato il suo spirito d’osservazione, ma ero certo che, a gioco iniziato, tutto sarebbe passato in secondo piano. Madeleine power. “Tieni, gioca con questo”. Le porsi il mio Gravis Ultrapad, che era costato un occhio della testa, ma hey, avevo preso 30e lode in psicolinguistica.
“AHH! È proprio lui! Burger Time! Il cuoco! Gli hamburger!” E zàcchetezac. Lo sapevo. Lo sapevo che come tutti, come sempre, anche l’algida Eli nascondeva sotto i vestiti e sotto la pelle un fior fior di fanciullina interiore. Nessuno escluso. Basta capire come, e salterà fuori. E poi che si fa? Si può gioire dell’evento, tirare fuori anche il proprio, di fanciullino interiore, ed entrare in risonanza mistica con l’altra persona, danzando estaticamente come Ihi, figlio di Horus e Hathor. Oppure uno può approfittarsene. Il commercio è quasi tutto basato su questo. Modellini dell’R9 Arrowhead di R-Type, ti piace più di qualsiasi cosa al mondo, eh? Bene io ce l’ho e te lo vendo per 900 euro. Venduto.
“Grazie, grazie, GRAZIE! Non puoi capire quanto mi hai resa felice!” Impulsivamente mi diede una pacca sulla gamba, e la mano restò un attimo più del dovuto sulla coscia, e mi parve quasi di percepire che, per l’emozione, me l’avrebbe strizzata volentieri, la coscia. Tutto senza mai distogliere gli occhi dallo schermo. Continuava a morire a ripetizione. Era totalmente incapace di giocare, probabilmente perché a giocare era in quel momento la Eli di tanti anni prima, quella cui il padre faceva fare una partitina al bar tabacchi mentre lui comprava il giornale e beveva il caffè, chissà perché, a Comacchio.
“Dai, gioca tu adesso!” Pfft. Me la cavavo, a Burger Time, ai tempi. E la versione Colecovision è anche più facile del coin-op. Avvicinai la sedia quanto basta ad avere la mia gamba destra contro la sua sinistra, con ESTREMA nonchalance e senza ASSOLUTAMENTE dare adito a dubbi sulla mia buona fede. Non si scostò. Cercava il contatto fisico, il che, in condizioni normali, mi avrebbe mandato nel panico, ma davanti a un Pentium e con un Gravis Ultrapad in mano è tutto più facile, soprattutto mentre si ottiene un punteggio stratosferico a Burger Time. Eli partecipava attivamente alla partita sobbalzando, incitando, oooh, aaah, spintonandomi giocosamente con la spalla sinistra. La gioia del recupero non tanto del gioco dei suoi sette anni, ma dei suoi sette anni proprio - il gioco è sempre la causa occasionale per recuperare il nostro sé remoto.
Che poi è quel che le dissi quando, dopo un quarto d’ora, giunsi all’inevitabile game over.
“Il gioco è sempre la causa occasionale per recuperare il nostro sé remoto, vero?” Mi voltai a guardarla. Non sono mai stato un genio nell’interpretare il volere femminile, ma anche l’armadio di noi, a quel punto, si era accorto che ne voleva. A pacchi.
“Di chi è? Jung? Huizinga? Babich?” Mi fissava divertita, intesa a sminuire una frase tanto prosopoppante, mentre con fintissima impercettibilità i nostri volti si avvicinavano l’un l’altro.
Abbassai il tono della voce. “Babich qui e ora, ma l’avranno sicuramente già detta sia Jung, sia Huizinga, e…” Allungò la mano e premette il tasto ESC, chiudendo l’emulatore. Lo schermo, fattosi di colpo nero, portò la penombra nella stanza, visto che già il cielo fuori cominciava a scolorire. La percentuale di contatto corporeo tra noi mandava messaggi inequivocabili a entrambi, e inevitabilmente io mi stavo ricordando di essere un ometto. Appoggiò la sua testa sulla mia spalla, appoggiò le sue labbra sulla mia spalla. Ero paralizzato dalla sua intraprendenza, che pure a quel punto era ovvia, ben accetta, benedetta. Chissà perché mi venne in mente una vignetta pubblicata sul numero 29 di “Videogiochi” dell’Editoriale Jackson, del settembre 1985. Un fumetto creato da un lettore. La vignetta, sgrammaticata, recitava: “Quando il tempio dei video-games irrompe nella luce l'orizzonte, l’uomo non ha più dubbi sul suo destino”.
(...)
Poche cose possono fermare due ventenni - in una casa vuota, al crepuscolo, di venerdì pomeriggio - se vogliono scoparsi. Giusto una telefonata alla mamma per dire “Non passo per cena, poi vado direttamente al cinema, di’ a Graziano che l’auto stasera la tengo io”, mentre io me ne stavo là sotto la coperta, fremente eppure sereno forte e calmo ad aspettare che lei tornasse a strusciarsi senza strane inibizioni che non fanno parte del sesso. Feci appena in tempo a pensare “Ah, ma allora quel tipo che hanno visto con lei è il fratello!” e “Mi sa che sono più vittima del senso di colpa cattolico io di lei, alla fin fine”, la sentii riagganciare e tornare dal soggiorno alla camera, tup tup tup i piedi nudi veloci sulle piastrelle. Si liberò del plaid in cui si era avvolta e mi piombò addosso per riappropriarsi del calore perduto nell’operazione telefonica, per allontanare madri e fratelli e auto e Codigoro dalla mente e dal corpo e tornare a me, ma soprattutto al suo piacere. Nei modi e nei fremiti, nel modo in cui si piegava su di me, voleva ribadire che non era stata né scelta né concupita ma che, al contrario, era lei che aveva scelto. Era per me un’esperienza nuova, essere il motore totalmente immobile dell’altrui piacere. “Fag tot me”, faccio tutto io, dicono a Ferrara. Ma prego.
(...)
“Allora, che te ne pare delle mie tette?” disse qualche ora dopo, mentre cercavamo il modo più sensato per coesistere in un letto singolo con una rete semisfondata. La guardai stralunato. “Be’, non mi sembra di averle esattamente trascurate…” “No, no, ma intendo: sono all’altezza delle aspettative di voialtri intellettuali? So che ci son gran discorsi…” “COME lo sai???” “Che sveglioni, che siete, eh? Marco non sta con Anna? Anna non sta sempre vicino a me in aula C durante le lezioni? Figurati se non me l’ha detto!” Non solo il rimbrotto era bonario, ma la signorina gongolava proprio. Si piaceva, vanità delle vanità. Si piaceva impenetrabile - oddio, forse un termine un po’ eccessivo, dopo l’accaduto - e si piaceva altera, fredda nelle apparenze, desiderabile ma padrona del suo desiderio.
“Sei diabolica. Ma quindi…”
“Quindi andavo a colpo sicuro, con te. Per quello ieri sono venuta ad attaccarti bottone… Mica ci sei venuto tu!”
“In effetti”
“Per quello ero infastidita quando prima pareva che te ne volessi andare lasciandomi con un floppy in mano in mezzo a Piazza Carducci. Anzi, dovrei dirti una cosa…” Le rideva anche il culo. Oggettivamente, ma anche metaforicamente. Stava praticamente sghignazzando, riuscendo a non perdere nemmeno un frammento della sua allure mentre ci rigiravamo nel letto toccandoci un po’ qua un po’ là.
“Prometti che non ti arrabbi?”
“È improbabile che, con il tenore delle mie endorfine questo pomeriggio, io possa arrabbiarmi”
“Ok. Be’, riguarda Burger Time. Vedi… io…”
“Tu?” Che si fosse accorta che era la versione Colecovision e non quella arcade?
“... io non ci ho mai giocato. Oggi è la prima volta che ci gioco. Non l’ho mai visto in vita mia”
Scoppiai a ridere. Ma che andava dicendo! “Vabbe’ diabolica, ma non pigliarmi per il culo, sei venuta tu a parlarmi del gioco degli hamburger!”
“Gioco degli hamburger che non ho mai visto, Babich. Però lo sai che per Grandi ho fatto una tesina sulle pubblicità degli anni Ottanta, no? Be’, tra le videocassette che ho recuperato, c’era anche questa pubblicità di questo gioco degli hamburger. Ho pensato: che idea assurda, però anche carina. Mio fratello gioca solo a giochi truculenti dove ci si ammazza in un labirinto…”
Parlava dello spot di Burger Time per Intellivision, trasmesso sulle emittenti nazionali. Ero esterrefatto. Avevo perfino smesso di tocchicchiarla smodatamente, ascoltavo immobile e in silenzio.
“Quando mi hai detto che avresti fatto qualunque cosa per me, da qualche anfratto del cervello mi tornò in testa quello spot, e l’ho infilato al volo nella conversazione. Ci ho aggiunto una spruzzatina di finto ricordo infantile - che si vede che sei un sensibilone - e il gioco è fatto”
“No aspe’ non giocavi a Comacchio…”
“No, mi è anche uscita male, quella - spiegami perché mai mio padre sarebbe dovuto andare fino a Comacchio a prendere il giornale. Non abbiamo edicole, a Codigoro?”
Intontito, mi distesi, lei si distese sopra di me, puntellandosi coi gomiti contro le mie clavicole.
“Ma… perché inventarsi una roba del genere, è contorto, è…”
“Oi bello, solo tu puoi essere quello con l’immaginazione? Io adoro inventarmi cose. Non canto, non disegno, ma come le racconto io… Pensa che a un certo punto mia madre, esasperata, mi ha portata dal medico, e lui voleva diagnosticarmi la pseudologia fantastica , ma poi gli ho fatto cambiare idea”
“E… come?”
“Mentendo, naturalmente!”
“Ma se sei una ballista conclamata perché mi racconti tutto ciò? Potrei raccontarlo agli altri e…”
“Oh, ma non lo farai, perché te lo leggo in faccia che questa cosa ti intriga da matti. Anzi, a ben sentire non solo ti intriga, ma ti eccita… Non sei così tontolone bonaccione come ti dipingi, in fondo!” Avrei voluto obiettare in merito ai termini “tontolone” e “bonaccione” ma non è facile obiettare con mezzo metro di lingua nella tua bocca. Eli aveva vinto su tutti i fronti, ma si trattava, come avevo appena studiato in Relazioni Internazionali con Bozzo, di una win-win situation. Insomma, sì, in termini di “piano diabolico”, io ero un dilettante, e lei invece ci sguazzava. Direi proprio che eccitava parecchio anche lei, dati alla mano.
(...)
Restai solo nella casa buia. Accesi la luce, presi due uova dal frigo e mi feci uno zabaione. Così, giusto per autocelebrarmi in maniera puerile e stereotipica. Celebrarmi de che: ero stato coionato alla grande, per quanto con il fine più piacevole che si possa immaginare. Tornai a letto e, nonostante lo zabaione sullo stomaco, sprofondai in un sonno pesante, con un ultimo pensiero: era stata un one afternoon stand o no? Mannaggia alla pseudologia fantastica e a Scienze della Comunicazione: quasi non fosse già abbastanza difficile capire l’altro sesso in generale!
Alle due di notte squillò il telefono. Sapevo, o meglio, speravo di non sbagliarmi sull'identità della chiamante.
“Pronto.”
Sottovoce: “Sono Eli!”
“Lo sospettavo. Dimmi”
“Senti”
“Dai, dimmi”
“Ma Pac-Man invece ce l’hai?”
Non poteva durare. Ma fu un febbraio indimenticabile.