Final Fantasy XV - Ancora tu? Non dovevamo vederci più?
Io Final Fantasy XV all’inizio l’ho amato, molto. Poi odiato, profondamente. Poi di nuovo amato, ma per poco. Poi sono arrivati i DLC e mi è stato un po’ sulle balle. Ora, dopo più di un anno, ci stimiamo a vicenda e ci salutiamo cordialmente quando ci vediamo, ma si capisce che le cose non sono andate come entrambi avremmo voluto. Final Fantasy XV, per me, è questo, un gioco che, al pari della mia gatta Marina Giordano, è capace di attirare a sé amore incondizionato e puro così come fastidio estremo. Il vantaggio di Final Fantasy XV rispetto a Marina Giordano è che almeno, anche quando mi fa incazzare molto, non devo raccoglierne i vomitini in giro per casa.
Io, su Final Fantasy XV/Versus ci avevo messo una pietra già parecchi anni fa, quando per intenderci si era già passati di generazione di console senza che del gioco diretto da Nomura ci fosse traccia alcuna nei piani di Square Enix o negli eventi a porte chiuse. Poi, però, il rebranding, il cambio di timoniere, l’approccio open world e tutte queste sciccherie qua un po’ mi avevano nuovamente ingolosito, al punto che sono arrivato ad avviarlo la prima volta con la bava alla bocca e un sacro fuoco dentro che nemmeno ricordo più quale Final Fantasy era riuscito ad accendermi (okay, lo ricordo, era il XIV, ma il XIV-bello, non il XIV-montagna-di-sterco).
Questo episodio, pur lontanissimo dall’essere uno dei più riusciti, è comunque tra i più interessanti, anche se il suo vivere di continui ed estremi dualismi, alla lunga, diventa quasi esasperante. È intanto un Final Fantasy finalmente moderno di concezione, con un’area open world in cui si vive il grosso dell’esperienza di gioco e che riesce a essere grande abbastanza da dare la giusta scala agli eventi ma non troppo da essere dispersiva, con un ottimo bilanciamento tra la sua estensione e la varietà/numerosità di cose da fare. Eos è un posto interessante da esplorare e pieno di attività, ha una sua estetica più verosimile che fantasy-à la-Final-Fantasy, ma riesce comunque ad essere coerente e fedele al nome che porta. Il design di Nomura, del quale, per inciso non sono un grandissimo fan, ancora si vede, ma è confinato ad armi, vestiario e capigliature. Il cambio di direzione rispetto a quell’immaginario barocco e bizzarro è evidente, sopratutto nella prima parte, porzione del gioco nella quale Tabata aveva più margine per tamponare l’estro del designer.
L’aria che si respira a Eos è quella del futuro (della serie) che riesce a essere rispettoso del suo passato, con un lavoro sui mostri, tra le altre cose, eccezionale e perfettamente funzionale al tono e al tipo di gioco che sembra all’inizio essere il quindicesimo capitolo. Pur con i suoi difetti, anche il sistema di combattimento non è così una chiavica come si potrebbe immaginare: la telecamera a volte va per i fatti suoi e la difficoltà generale è più legata al livello dell’equipaggiamento che all’effettiva abilità del giocatore, ma Final Fantasy non si è mai fatto ricordare per essere un gioco particolarmente complesso e ostico, a eccezione di quei due o tre boss a capitolo che uccidevano il due per cento dei giocatori e che erano comunque anch’essi legati a precise esigenze in termini di livello o equipaggiamento. E poi io sono sempre contento quando un gioco prova a innovarsi e cambiare per non rimanere legato a quello che ha sempre fatto: certo Square Enix lo fa perché prova a intercettare sempre il bersaglio grosso e non perché sia particolarmente avanguardista, ma è comunque una cosa che non tutti fanno, sopratutto quando si trovano a gestire serie da milionate di copie, che pesano non in maniera differente sui budget annuali.
Le due anime del gioco sono però in tale contrapposizione che lo scontro è sempre stato inevitabile e catastrofico, non tanto per il risultato finale, che è la quasi ovvia media tra una prima metà strepitosa e una seconda al limite degli schiaffi in faccia, ma perché la sensazione che asportando del tutto gli ultimi capitoli, avendo quindi un gioco meno ambizioso ma più solido, ci si sarebbe trovati davanti un perfetto punto di partenza. Non che non ci sia comunque, eh! L’infrastruttura del gioco è quella e non ha nulla da invidiare alle altre produzioni, così come il talento del direttore o del team di sviluppo, ma se questi elementi sono dati per acquisiti, quello di cui non si è sicuri è l’effettiva “volontà politica” nell’accettare del tutto il cambiamento e proiettarsi finalmente in un’era nella quale ci sia margine per sperimentare e innovare senza più le inutili zavorre del passato.
In questo senso, Final Fantasy XV, o almeno la sua versione day one, è la perfetta sintesi di una Square Enix desiderosa di andare avanti, e pure in maniera spedita, ma totalmente incapace di abbandonare quei pesi (ciao, Tetsuya!) che tanto gli hanno dato in passato ma che certo non sono più adatti a questo mercato e a questi tempi. Non bastano l’intero anno di contenuti aggiunti dopo il lancio o l’edizione definitiva (Royal) in uscita giusto in questi giorni: il quindicesimo capitolo sarà sempre il più coraggioso ma anche il più conservatore del lotto, quello capace di dar vita a un mondo (in tempo reale) bellissimo e vibrante, ma pure quello della macchina a cui vorresti bucare le gomme dopo cinque minuti o del regresso narrativo più evidente e disperante dell’ultimo decennio. Nonostante tutto questo, però, questo capitolo rimarrà uno fra i più importanti per la saga, per diversi motivi, e uno di questi è che ha portato alla luce la bravura e il talento di Hajime Tabata, uno di cui Final Fantasy aveva un gran bisogno.
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Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.