Racconti dall'ospizio #123 – Adventure, altro che Zelda!
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Di come sia iniziata la mia carriera da videogiocatore ho già scritto più e più volte qua su Outcast, fra un Racconto dall’ospizio e l’altro. Ma insomma, se devo parlare di Adventure per Atari 2600 e di ciò che ha rappresentato, per me oltre che per un settore tutto, è difficile evitare di ripetermi. I miei primi contatti con i videogiochi, ne sono assolutamente o forse, sono avvenuti fra baretti e ristoranti, appiccicato ai magici cabinati dei retrobottega, e il ricordo – credo – più antico che ho al riguardo è quello di un Jungle Hunt in pizzeria, o giù di lì, mentre mia madre chiacchierava al tavolo con altri, durante un caldo pomeriggio estivo. O magari mi sono inventato tutto. Non lo so, la mia memoria è molto fallace. Ma la mia prima, vera, esperienza videoludica casalinga è quella con l’Atari 2600, che mi venne regalato da uno zio assieme alla sua collezione da una trentina di giochi, dato che lui aveva fatto l’upgrade al Commodore 64. Capite quindi che fu un momento surreale. Improvvisamente avevo in casa decine di giochi diversi e navigavo in un delirante mix di porcherie assolute, robetta mediocre, bei giochi divertenti e capolavori senza tempo.
Poi, certo, ero piccolo, ma piccolo piccolo, roba da cinque o sei anni al massimo, e non è che mi rendessi troppo conto della qualità di ciò che avevo davanti. O della carica folle, eversiva, surreale, tanto di quella macchina quanto di alcuni giochi che ospitava. Giocavo. Sognavo davanti ai pixel giganteschi di un Night Driver, mi divertivo come un matto nel trionfo multiplayer di un Combat, magari credevo che quella versione di Asterix avesse una grafica molto bella e, sì, scoprivo Adventure. Vogliamo mettere sul piatto tutta l’onestà di questo mondo? Vogliamo farlo? VOGLIAMO DIRLA TUTTA? Ma chi cacchio se lo ricorda se, quanto, e come giocai ad Adventure da piccolo? Io no di sicuro. Se dovessi scommettere, mi sentirei di dire che probabilmente mi sembrava troppo complicato, lento, difficile da interpretare, e quindi passavo tutto il tempo a giocare a Joust. Che, diciamocelo, come conversione era bruttarella, ma che dovevo saperne? Io mi ci divertivo come un matto!
Però la verità è che Adventure era un giocone. Lo era all'epoca, lo è stato poi, lo è stato anche quando l'ho riscoperto pasticciando con le vecchie cartucce tanti anni dopo, lo è perfino oggi che ci ho rimesso mano in emulazione causa Cover Story. Warren Robinett voleva rifare Colossal Cave Adventure (l'avventura testuale del brodo primordiale, a cui dobbiamo anche Zork) in una versione che avesse senso su Atari 2600. Arrivava da Slot Racers, altra roba su cui m'ammazzai di partite, ma aveva chiaramente ambizioni ben superiori. Un'avventura su Atari 2600? Ma sei matto. E INVECE! E invece guarda che impressionante cumulo di idee, che modo fenomenale di comprimere il fascino evocativo e l'ampiezza di un'avventura fantasy fra quattro pixel e una manciata di schermate.
Io non me lo ricordo proprio, come fosse giocare Adventure all'epoca. Suppongo che fosse molto sorprendente, affascinante, impegnativo (perlomeno nelle modalità avanzate) e che, se eri già un giocatore esperto, ti desse l'idea di stare davanti a qualcosa di davvero nuovo, un punto di svolta e di partenza. In fondo, non so se Shigeru Miyamoto ci abbia messo mano, ma è veramente difficile non vederci tanto dello Zelda che sarebbe stato qualche anno dopo. Per quanto oggi risulti incredibilmente semplicistico, Adventure faceva già quella cosa lì: ti piazzava in un mondo fantasy tremendamente evocativo e ti offriva un luogo da esplorare, coi suoi meccanismi, i suoi piccoli enigmi da risolvere, i suoi mostri enormi e fantasiosi a cui sopravvivere. C'era tutta la magia dell'avventura, del combattimento, della logica, pressata in pochi kappa di memoria.
La quantità di idee e soluzioni ingegnose, sul serio, è sorprendete ancora oggi, forse perché di fronte a quella semplicità audiovisiva, a quei controlli minimalisti, a quei draghi che sembrano papere, non te l'aspetteresti. La scelta di schivare l'inventario per dare fluidità all'azione e costringere a portare un solo oggetto per volta apre le porte a soluzioni tattiche da adottare al volo che fanno venire in mente l'inventario di Resident Evil vent'anni prima dell'inventario di Resident Evil. Mi porto dietro la chiave o la spada? Che ci faccio, con la calamita? Forse è meglio se la appoggio qui, così posso tornare a prenderla. E vogliamo parlare del ponte (o di qualsiasi cosa sia quell'affare)? Ma quanto è bella l'idea di prenderlo, portartelo dietro e, sostanzialmente, avere un passaggio segreto portatile da mettere un po' dove ti pare? È fenomenale.
E se la modalità base è francamente di una facilità limpida, basta pasticciare con le altre per rendersi conto delle bestemmie che arrivano all'orizzonte, illuminate dal caldo sole di un cielo fantasy. Adventure è un capolavoro. Non è magari un capolavoro senza tempo, perché per goderselo oggi serve uno spirito un po' archeologico, ma cacchio che bomba che fu, che portato innovativo, che voglia di fare, disfare, creare e inventare, quanto manico in chi l'ha sviluppato e che razza di solco ha lasciato. Ma poi, su, la stanza segreta con dentro l'easter egg di Ready Player One, ma come si fa?
Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.