Ode agli hack'n slash
Non sono oggettivamente un fenomeno in nessun videogame – forse solo in Lumines sono, anzi ero, abbastanza palesemente più capace della media – eppure, se c’è una cosa di cui posso andare orgoglioso nel mio curriculum di gamer, è senza dubbio la mia spiccata eterogeneità in fatto di gusti videoludici. A parte qualche inevitabile eccezione, tipo i MOBA o tutto ciò che esiste al mondo di fieramente simulativo, sono uno che può saltare senza colpo ferire dai platform agli sparatutto, passando per gli adventure, i rhythm game, gli sportivi e persino le più invereconde cretinate casual (c’è stata un’epoca in cui, ad una Gamescom, il buon giopep m’ha spedito a una mezza dozzina buona di appuntamenti dedicati a Kinect, tanto per capirci). Insomma, mi bastano un’idea, un po’ di sano gameplay e magari lo spunto giusto a livello artistico e io posso già considerarmi abbastanza soddisfatto, perché fondamentalmente sono uno che ama l’attività-videogioco nel senso più ampio e letterale del termine.
Nessun genere però riesce ad avvicinarsi, nemmeno lontanamente, a quel che sanno regalarmi gli hack’n slash: con quel loro approccio diretto e viscerale, gli action in terza persona mi scaldano il cuore in maniera sublime, solleticandomi l’anima con i loro tecnicismi capaci di tradursi in prodigiosi massacri digitali, in goderecci tripudi di sangue e violenza efferata. Quanta soddisfazione e quanta bellezza, in quelle elaboratissime combo, in quella schivata al millimetro piazzata proprio al limite, in quel contrattacco micidiale sul filo del rasoio. Perché, alla fine, c’è veramente poco da fare: Bayonetta, Ninja Gaiden, Devil May Cry e tutto il resto della compagnia sono i miei Tempesta d’Ossa, i miei oggetti di un insaziabile desiderio quasi pornografico, e io non posso che essere il loro Milhouse, estasiato ed esaltato in egual misura di fronte alla TV.
Eppure, in anni di passione viscerale, di una fame che mi ha spinto a provare e finire sostanzialmente qualunque cosa mi capitasse a tiro (anche roba tipo il sottovalutatissimo X-Men Origins: Wolverine, un tie-in di diverse lunghezze migliore del film a cui si ispirava, l'estemporaneo Deadly Creatures, con protagonisti un ragno e una tarantola e Billy-Bob Thornton al doppiaggio, oppure quella fetecchia assoluta di Beowulf: The Game), non mi sono mai soffermato a pensare alle ragioni per cui gli action mi piacessero in effetti così tanto. Da una parte, credo sia una suggestione che viene da lontano, da remoti ricordi d'infanzia legati a classici immortali come Golden Axe, Streets of Rage o Alien vs. Predator: i picchiaduro a scorrimento possono per certi versi essere considerati i diretti progenitori di un certo tipo di action in voga oggi e, data la loro importanza nella mia formazione di videogiocatore, credo che l'imprinting sia stato tra il decisivo e l'inevitabile.
Come del resto dimenticare quell'enfasi sul sopravvivere uno – o più, nel caso dei vari Cadillacs & Dinosaurs e Teenage Mutant Ninja Turtles, che del multiplayer facevano un clamoroso punto di forza – contro tutti? Come scordarsi di quell'appassionante lotta per la sopravvivenza, spesso e volentieri coraggiosamente combattuta all'ultimo gettone? L'elettricità e la tensione che ti trasmettono anni dopo Kratos, Ryu Hayabusa o Dante sono grossomodo le stesse, imperlandoti la fronte di sudore e spingendoti sul bordo della poltrona mentre la contesa si trasforma in una partita a scacchi da vincere in punta di polpastrelli, rosicchiando all'avversario ogni fottuto pixel di quella maledetta barra dell'energia.
Perché quello che (mi) rapisce degli hack'n slash sta esattamente lì, nell'emozione così marcatamente sensoriale che è insita nel DNA del genere. Esiste infatti negli action un equilibrio tra input e output che a mio avviso non ha eguali di sorta: un rapporto tra azione e reazione fulminante, tutto basato sui riflessi, sul sangue freddo e sulla ripetizione di pattern più o meno complessi, che è in grado di galvanizzare l'utente come poche altre cose. Basti pensare, in quest'ottica, alla differenza radicale che possono fare i proverbiali sessanta frame al secondo: intendiamoci, la fluidità resta un pregio sempre e comunque, ma è forse proprio con questa tipologia di esperienze che trova il suo massimo splendore, il suo climax capace di unire forma e sostanza in un unicum paradisiaco.
E che dire, poi, della difficoltà, quasi sempre orgogliosamente tarata verso l'alto, e del tasso di sfida sfacciatamente esibito, con il sottogenere degli stylish action game che non solo impone di sopravvivere, ma addirittura aggiunge la variabile di sopravvivere con stile, sbattendoti sul muso un giudizio sulle tue performance duello dopo duello? Siamo su livelli altissimi, Signore e Signori, e noi, che siamo diventati ciò che siamo a colpi di Izuna Drop e di Stinger, possiamo rivendicare con malcelato orgoglio il primato del masochismo somministrato tramite un controller, visto che abbiamo goduto nel farci prendere a gomitate nelle palle parecchio prima che arrivasse a “intrattenerci” il sempre caro Dark Souls.
Poco importa allora che si parli di The Wonderful 101, di God Hand, di Dante's Inferno, di Nioh, di Splatterhouse, di Ninja Blade o di chissà che altro ancora: con declinazioni e approcci sempre diversi, attraverso sistemi di combattimento più o meno tecnici, a fare da fil rouge c'è sempre lo stesso desiderio di catarsi attraverso lo sfogo dell'aggressività, c'è la stessa voglia di migliorarsi e di non indietreggiare di fronte agli ostacoli, c'è lo stesso retrogusto arcade esaltato dalla ferrosità del sangue che imbratta puntualmente lo schermo. Perché, almeno per quanto mi riguarda, gli hack'n slash uniscono davvero il meglio del meglio, prendendo gli elementi cardine di generi diversi per offrire un mix semplicemente irresistibile.
E allora, in occasione dell'arrivo di una produzione gigantesca come God of War – un titolo che promette di cambiare almeno in parte il panorama degli action in terza persona, con il suo stacco netto dal passato e la sua enfasi narrativa teatrale – più che mai vale la pena di alzare i calici per un simbolico brindisi: lunga vita a Kratos, a Ryu Hayabusa, a Dante e a Bayonetta... mille di questi giorni e soprattutto mille di queste battaglie, per una devastante combo destinata a non finire mai.
Questo articolo fa parte della Cover Story su God of War, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.