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Trent'anni di Art of Fighting, la serie "intelligente che non si applica” | Racconti dall'ospizio

Trent'anni di Art of Fighting, la serie "intelligente che non si applica” | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quando Andrea mi ha contattato chiedendomi di scrivere un articolo per il quarantesimo anniversario di Ryuuko no Ken, a.k.a. Art of Fighting, ho sentito le ginocchia cedermi. Sono già passati quarant’anni anni? Possibile? Non credevo di essere così vecchio, ma in effetti la demenza senile potrebbe aver agito alle mie spalle. Poi è arrivata la rettifica. Il 24 settembre cade il trentennale della storica serie SNK, quindi ho “guadagnato” dieci anni di vita con una semplice email.

Dopo essermi ripreso dallo spavento, mi sono concesso qualche istante per pensare al mio rapporto con Ryuuko no Ken. La serie con Ryo Sakazaki e Robert Garcia mi era mai piaciuta? Non proprio. Dopo un primo impatto devastante legato alla grafica fuori di testa, stick alla mano l’avevo sempre trovata troppo legnosa per i miei gusti, anche se ne apprezzavo la pesantezza dei colpi, la caratterizzazione dei personaggi e lo stile delle mosse speciali.

Eppure… per qualche motivo ho pensato che sarebbe stato bello parlarne. Nonostante gli evidenti limiti ludici, la saga di Art of Fighting ha sempre suscitato su di me un interesse bizzarro, per certi versi morboso. Ricordo ancora distintamente il nostro primo incontro, nel 1992. Ero uscito con mio padre per una delle serate che ogni tanto dedicava al nostro rapporto. Cena in pizzeria, chiacchiere varie e un salto a Trastevere Games, la sala giochi dove mi accompagnava sempre in queste occasioni.

Dopo aver cambiato i gettoni feci il solito giro tra i cabinati in cerca di eventuali novità e, con gli occhi sgranati per lo stupore, mi fermai davanti al tubo catodico che mostrava Ryo Sakazaki e Robert Garcia intenti a sfoggiare la potenza del Kyokugenryu Karate contro il corpulento Jack Turner e lo smilzo Mickey Rogers. A lasciarmi di stucco fu la dimensione degli sprite, così grandi da raggiungere l’interfaccia in cima allo schermo. All’epoca avevo già giocato diversi giochi di combattimento, ma non avevo mai visto nulla di simile.

Ad Art of Fighting dobbiamo anche la nascita di Dan Hibiki, joke character di Street Fighter il cui design è un mix di elementi di Ryo e Robert.

D’altra parte, con Art of Fighting SNK lanciò la collana 100 Mega Shock, una vera e propria dimostrazione di forza nei confronti di una concorrenza che, a quei tempi, viaggiava su numeri nettamente inferiori. Dopo essermi imbambolato qualche secondo davanti al video dimostrativo, ipnotizzato dalle spettacolari zoomate e dall’incipit narrativo molto simile a quello di un film d’azione, feci scivolare la moneta nella gettoniera e iniziai la prima partita.

La delusione mi colpì nel momento esatto in cui capii di poter scegliere solo tra Ryo e Robert, i due personaggi principali. Il resto del cast era disponibile per le sfide multigiocatore, ma in ogni caso il numero di lottatori selezionabili era a dir poco esiguo. Durante il primo scontro con il povero Todo, però, la meraviglia tornò a sciogliermi il cervello, strappandomi commenti esagerati.

“Si vedono i lividi sul viso dei personaggi!”

“C’è una barra a parte per le mosse speciali e si ricarica con lo stesso effetto di Ken il Guerriero!”

“Provocando l’avversario si consuma la sua barra delle mosse speciali!!!”

“I bonus stage sono pazzeschi! Si impara come lanciare un muro di fuoco!”

E ancora, “Fanno la mossa dei cento colpi di Kenshiro, sia con i pugni che con i calci!!!”

La quantità di elementi inediti presenti in quel gioco lasciò un segno profondo nel mio cuore di giovane appassionato di picchiaduro e di Hokuto no Ken. Chi aveva realizzato Ryuuko no Ken era di certo un grande fan dell’opera di Buronson e Hara, era palese. La caratterizzazione dei personaggi, le loro tecniche, la voce lamentosa di Yuri Sakazaki, così simile a quella di Rin… Avevo fantasticato più volte sull’idea di trovarmi fra le mani un bel picchiaduro a incontri dedicato a Kenshiro e soci, e Art of Fighting era la cosa che più gli si avvicinava.

Quella sera, l’ennesima creatura mitologica di Takashi Nishiyama, già papà di Street Fighter e di Garou Densetsu, monopolizzò la mia riserva di gettoni e costrinse mio padre a sorbirsi un fiume in piena di commenti emozionati lungo il tragitto fino a casa. Ero rimasto folgorato e il mio amore per i giochi di combattimento ne era uscito più forte che mai.

Infliggendo il colpo di grazia con una mossa speciale si sbloccava un’animazione alternativa per il KO, in cui i vestiti del personaggio si strappavano in più punti. Era così che si scopriva il “segreto” di King.

In seguito non ebbi molte occasioni per giocare Art of Fighting in sala giochi e cercai di consolarmi con la misera conversione per Super Nintendo (per saperne di più sul mio rapporto con le conversioni “dei povery” dei giochi Neo Geo, leggete l’articolo su Garou Densetsu), con scarsi risultati.

Nel frattempo, però, nelle sale giochi italiane era arrivato Art of Fighting 2, un titolo ben più orientato al multiplayer, senza però rinunciare alla spettacolarità del primo capitolo. La prima volta lo vidi a GiocaGiò, la sala giochi dove mi godevo regolarmente le dosi quotidiane di picchiaduro. Era il 1994 e il cabinato che ospitava Ryuuko no Ken 2, un gigantesco SEGA Megalo, era costantemente circondato da una folla di ragazzi urlanti intenti a fare il tifo e a sottolineare le giocate più emozionanti.

L’atmosfera era la stessa che si respirava attorno ai cabinati delle varie versioni di Street Fighter II, ma il livello d’ingresso era proibitivo. Rispetto ai picchiaduro Capcom, infatti, Art of Fighting 2 era davvero spietato. L’intelligenza artificiale era programmata al livello Newtype e durante le sfide contro i giocatori più esperti bastava pochissimo per subire l’onta del Perfect KO. Oltretutto, la fila per giocare era tale che finivo regolarmente per dare i miei gettoni in pasto a qualche altro cabinato.

Quando riuscii finalmente a provare con mano la nuova avventura di Ryo e Robert mi resi conto che i comandi erano meno reattivi rispetto a molti altri giochi di combattimento. La cosa mi infastidì al punto da allontanarmi, spingendomi tra le braccia di altri gioielli made in SNK, in particolare Samurai Spirit e Garou Densetsu Special.

Le animazioni di Art of Fighting 3 riescono a impressionare ancora oggi. Peccato per la giocabilità non proprio eccelsa e per la direzione artistica meno incisiva rispetto ai capitoli precedenti.

Nonostante le indiscutibili qualità del gioco, quindi, il mio rapporto con Art of Fighting 2 durò quanto una storiella estiva, lasciandomi un’amarezza di fondo che non riuscivo a spiegare. Certo, anche il primo episodio era legnoso, ma sotto a quella scorza dura come il marmo nascondeva un cuore intraprendente impossibile da ignorare. Il seguito era “più grande e più bello”, ma aveva perso il coraggio di sperimentare.

Quando arrivò terzo capitolo, nel 1996, lo saltai direttamente, complice la sua assenza nelle sale giochi che frequentavo. D’altra parte, al lancio venne accolto con una certa freddezza ed è per questo che i gestori delle sale arcade preferirono investire i propri soldi su titoli con una maggiore capacità di profitto.

Art of Fighting 3 lo recuperai solo diversi anni dopo, grazie all’emulazione. Rimasi colpito dalla qualità delle animazioni (realizzate sfruttando la tecnica del motion capture), ma mi resi subito conto dei grossi problemi di cui soffriva la giocabilità. Il ritmo troppo compassato degli scontri e i nuovi personaggi creati dagli sviluppatori non reggevano il confronto con il cast dei capitoli precedenti. La direzione artistica, inoltre, si era allontanata dallo stile graffiante di Hokuto no Ken, presentando personaggi più vicini agli anime moderni.

Le sequenze animate del pachinko di Ryuuko no Ken sono incredibili. Il giovane Geese Howard sembra la versione moderna del perfido Shin.

Dopo il flop del terzo capitolo la serie di Ryuuko no Ken è finita nel dimenticatoio, per tornare a galla solo in occasione della raccolta per PlayStation 2 (scaricabile anche per PlayStation 4) e delle versioni ACA Neo Geo, disponibili sulle peggiori piattaforme digitali di Caracas. SNK, tuttavia, non ha dimenticato questo pezzo della propria storia. Qualche anno fa ha pubblicato (solo in Giappone) un pachinko che rielaborava le vicende dei primi due capitoli, raccontandole attraverso sequenze animate fuori di testa.

Come dimostra il recente annuncio del seguito di Garou: Mark of the Wolves, al momento l’azienda è lanciatissima nel recupero delle sue vecchie glorie. Un eventuale ritorno di Art of Fighting è quindi possibile, ma non è affatto detto che l’attuale SNK sia in grado di sperimentare come fece con il primo capitolo della serie. Il vuoto lasciato da Takashi Nishiyama non è certo facile da colmare e in un mercato come quello attuale, dove un singolo fallimento potrebbe mettere a rischio l’intera azienda, la sperimentazione è un lusso che ben pochi possono permettersi a cuor leggero.

Ripensandoci adesso, è proprio a Ryuuko no Ken che dobbiamo molte meccaniche dei giochi di combattimento moderni. Fu il primo picchiaduro con un indicatore secondario diverso da quello della salute. Aggiunse la possibilità di scattare in avanti o indietro. Lanciò l’idea dell’universo condiviso con altri giochi (Garou Densetsu), favorendo poi la nascita dell’amatissima saga di The King of Fighters. Introdusse perfino le super eseguibili solo dopo aver perso buona parte della salute! La sua importanza per il genere è innegabile, ed è per questo che merita di essere ricordato e celebrato a dovere.

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