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Virtua Fighter: trent'anni fa, un piccolo passo per SEGA, un grande passo per i videogiochi

Virtua Fighter: trent'anni fa, un piccolo passo per SEGA, un grande passo per i videogiochi

Gli anniversari dei giochi di combattimento si susseguono senza sosta, ma quello che mi appresto a celebrare con l’ennesimo delirio dall’Ospizio mi sta particolarmente a cuore. Quando si parla di picchiaduro, il primo titolo che mi viene in mente è sempre Street Fighter II: The World Warrior (ne abbiamo parlato in questo Retroutcast), probabilmente per via dell’impronta indelebile che il gioco targato Capcom ha lasciato nella mia memoria, muscolare e non.

Dopo il primo flash squisitamente bidimensionale, però, la mente si sposta con decisione verso Virtua Fighter, che mi ha accompagnato lungo un percorso più maturo e ragionato, conquistandomi con un approccio asciutto e metodico molto simile a quello che ho vissuto praticando le arti marziali reali.

Come al solito, il mio primo contatto con il titolo SEGA è stato in una sala giochi. In questo caso, però, l’imprinting è avvenuto in un ambiente diverso dal solito, una saletta abbastanza sfigata che si trovava dalle parti di Piazza Cavour, oggi sostituita da una pizzeria come tante. Pur non essendo la migliore delle sale arcade, era comunque un luogo dove passare il tempo al termine delle lezioni, aspettando l’autobus (la fermata era proprio di fronte) o digerendo un pezzo di pizza comprato lungo la strada.

La selezione dei giochi non era eccezionale, ma oltre ai grandi classici c’era comunque qualche titolo degno di nota, mentre al piano inferiore, se si riusciva a superare il disgusto per l’odore non proprio invitante, c’era una collezione di vecchi cabinati che meritava il sacrificio saltuario di qualche gettone.

Conservo ricordi molto piacevoli legati alle sale giochi meno note. Erano luoghi bizzarri, dove non avendo la mia solita comitiva di amici e conoscenti potevo vivere la passione per i cabinati arcade in modo più intimo. All’epoca ero un liceale squattrinato che spendeva i propri risparmi in fumetti e videogiochi per console, motivo per cui quando andavo in sala giochi ogni singolo gettone aveva un peso enorme.

Un giorno mi trovai di fronte al cabinato originale del primo Virtua Fighter. La sala giochi, come sempre, era mezza vuota e visto che nessuno stava giocando a quel picchiaduro misterioso, mi presi un po’ di tempo per apprezzare le immagini che si susseguivano sullo schermo con una fluidità incredibile.

Nelle grafiche del primo cabinato di Virtua Fighter appariva ancora Siba, un personaggio arabo armato di spada, successivamente sostituito da Akira. Nel libretto di istruzioni del primo capitolo della serie si legge che Siba è stato squalificato dal torneo perché, secondo il regolamento, non si potevano usare le armi.

Non era il mio primo incontro con la grafica poligonale. Avevo già avuto la fortuna di giocare a Virtua Racing (in una situazione ben più affollata e caotica), ma era la prima volta che vedevo quel tipo di tecnologia applicato a un gioco di combattimento, una delle mie grandi passioni.

L’impatto fu devastante, ma quando mi resi conto che una partita costava la bellezza di 1.500 lire, capii che quel giorno non avrei potuto provare a fondo il nuovo gioco SEGA. L’hardware Model 1 su cui era stato sviluppato Virtua Fighter era piuttosto caro, e i gestori delle sale giochi erano stati costretti ad aumentare il prezzo delle singole partite per rientrare rapidamente dell’investimento.

Era la dura vita degli appassionati di videogiochi. Oggi basta un abbonamento relativamente economico per godersi al day one giochi incredibilmente complessi, ma all’epoca gli investimenti delle divisioni di ricerca e sviluppo delle grandi aziende pesavano sensibilmente sulle tasche (e sui gettoni) dei giocatori.

Quel fatidico giorno riuscii a fare solo due partite, una con Akira e una con Pai, per un tempo di gioco totale pari a meno di cinque minuti. I round duravano pochissimo e ogni attacco faceva danni assurdi! Il sistema di controllo si basava su tre soli tasti, uno per i pugni, uno per i calci e uno per la parata, ma era possibile combinare più pulsanti, o perfino le direzioni, per attivare mosse differenti.

Con il cuore che batteva all’impazzata mi resi conto di aver appena grattato la superficie di qualcosa di monumentale. Era nato l’amore e mi ero reso conto di aver trovato un gioco a cui dedicare tutto me stesso. Tornato a casa, frantumai le palle ai miei amici descrivendogli ogni singolo dettaglio di Virtua Fighter, vomitando parole di elogio nei confronti della grafica avveniristica, delle animazioni pazzesche e del realismo di ogni combattimento.

A differenza di altri picchiaduro, Virtua Fighter non ha mai dato peso alla storia. C’è comunque un canovaccio narrativo che lega i vari personaggi, approfondito attraverso produzioni di altro tipo come l’anime, trasmesso anche in Italia diversi anni fa.

Ripensandoci oggi mi viene da sorridere, perché preso da quell’entusiasmo inarrestabile avevo chiuso un occhio (o entrambi) davanti a cose che successivamente mi avrebbero fatto storcere il naso, come gli improbabili i salti con gravità “lunare” e gli effetti sonori che sembravano pensati per un anime di robottoni.

Ma l’amore non vede i difetti. Col passare del tempo, il mio rapporto con Virtua Fighter è diventato sempre più morboso. Quando vidi Tekken in sala giochi reagii quasi con sdegno, percependolo come un plagio ai danni di SEGA, quasi come se a essere in gioco fossero le sorti della mia azienda.

Vedevo i cabinati di Tekken sempre affollati, mentre quelli del povero Virtua erano abbandonati in un angolo, tristi e soli. Perché le persone non riuscivano a vedere le qualità del picchiaduro di Yu Suzuki e del team AM2? Ci misi un po’, ma alla fine, osservando le reazioni dei giocatori, trovai la risposta alla mia domanda: Virtua Fighter era poco accessibile.

Nel picchiaduro Namco anche i neofiti riuscivano a divertirsi e a vincere qualche sfida, semplicemente “smanettando” come se non ci fosse un domani. Personaggi come Marshall Law o Paul Phoenix erano vere e proprie macchine da guerra in mano a giocatori inesperti.

In Virtua Fighter questa possibilità non era contemplata. Yu Suzuki aveva ideato il gioco pensando a un vero e proprio simulatore di arti marziali, perfino nella crescita del giocatore. Per migliorare servivano impegno, costanza e dedizione. Era necessario apprendere ogni singola tecnica del proprio personaggio preferito e capire come e quando usarla. Nulla era lasciato al caso e la tecnica dello “smanettamento” dava vita solo a brevi sequenze di pugni o a singoli attacchi poco incisivi.

Da una parte amavo questo approccio Zen, ma dall’altra ero convinto che Yu Suzuki non avesse considerato un elemento fondamentale: il maestro. Per apprendere le arti marziali si segue un percorso di crescita lento e costante, sotto la guida di un maestro che insegna la filosofia della disciplina scelta e le rispettive tecniche.

In sala giochi questo elemento era quasi del tutto assente. Se è vero che nei gruppi capitava di trovare qualche anima pia disposta a spiegare una o due mosse (soprattutto nei giochi bidimensionali, dove le tecniche speciali erano legate a comandi complessi), le sale arcade non sono mai state i luoghi adatti per un apprendimento lento e ragionato. Nella maggior parte dei casi, erano repliche 1:1 di Tana delle Tigri, dove i forti regnavano sui deboli, costretti a crescere e ad adattarsi per sopravvivere.

Virtua Fighter è apparso su molti sistemi differenti e ha dato vita a diversi spin off (anche improbabili). Dalle versioni 2d su Megadrive, Game Gear e Master System, al dimenticabile Virtua Fighter Kids, fino ad arrivare a Virtua Quest per GameCube. C’è davvero tanto da scoprire!

Virtua Fighter fu il motivo per cui preferii il SEGA Saturn alla PlayStation di Sony. Ironia della sorte, fu proprio il successo del picchiaduro di AM2 a spingere Sony a progettare un hardware più performante sulla grafica 3D. Nonostante il suo ruolo chiave nella nascita e nella diffusione dei giochi poligonali, con il Saturn SEGA puntò sulla grafica bidimensionale, ritrovandosi sempre un passo indietro rispetto alla nuova rivale.

Nonostante questo, con l’uscita di Virtua Fighter 2 dimostrò ancora una volta di disporre di team di sviluppo fuori parametro. Il secondo capitolo del gioco di combattimento di AM2 fu un balzo tecnologico enorme rispetto a quello uscito solo un anno prima, grazie anche al supporto della scheda Model 2.

Il simulatore di arti marziali accolse due nuovi combattenti (Leon e Shun-Di), mettendo in scena scontri eleganti all’interno di ambientazioni spettacolari. L’arena di Shun-Di, su una zattera alla deriva lungo un fiume, lasciava a bocca aperta per la quantità e qualità dei dettagli (come l’ombra proiettata dal ponte sotto cui passava l’imbarcazione).

La conversione per Saturn si rivelò eccezionale. La console di SEGA rinunciò agli sfondi poligonali (e al ponte sul fiume), ma lasciò tutto il resto inalterato, permettendo di giocare comodamente a casa con uno dei picchiaduro più eleganti, complessi e giocabili di quel periodo. La versione casalinga, poi, permetteva di sbloccare diverse opzioni interessanti.

Il mio ricordo più divertente legato a Virtua Fighter 2 è quello delle sfide con il mio vicino di casa (praticamente un fratello), su un ring minuscolo, con energia infinita e con l’unica possibilità di vittoria rappresentata dal Ring Out. Abbiamo passato interi pomeriggi cazzeggiando in quel modo e scrivendo questo articolo mi è venuta una voglia matta di riorganizzare la cosa.

Dopo la pubblicazione di Virtua Fighter 2, Tecmo sfruttò la scheda Model 2 per sviluppare Dead or Alive, ricordato da molti con il nome di Sexy Virtua Fighter.

Il percorso di crescita della serie continuò con Virtua Fighter 3. Come da tradizione, il nuovo capitolo venne sviluppato su un nuovo hardware, la scheda Model 3, garantendo un ulteriore salto tecnologico con cui sperimentare nuove soluzioni. Virtua Fighter 3 è stato un capitolo sperimentale, dove gli sviluppatori hanno introdotto nuove soluzioni per cercare di innovare un genere diventato un po’ troppo pigro.

Venne così introdotto il pulsante della schivata, che permetteva di evitare gli attacchi diretti e di muoversi in profondità all’interno di arene per la prima volta irregolari. I combattimenti si svolgevano sui tetti, lungo delle scalinate e in ambienti più complessi e articolati rispetto al passato. Come da tradizione, poi, arrivarono due nuovi combattenti, il sumoka Taka-Arashi e Aoi Umenokoji, l’aggraziata maestra di aikido.

Purtroppo l’aggiunta di un quarto pulsante non venne accolta con gioia dai giocatori (io stesso non l’ho mai digerito), motivo che spinse gli sviluppatori a tornare alla vecchia configurazione con Virtua Fighter 4, associando la schivata a un movimento specifico della leva. Le arene su più livelli, invece, crearono molti problemi di bilanciamento, rivelandosi un vero incubo sia in termini di programmazione che di giocabilità.

Quando uscì Virtua Fighter 3, che vidi per la prima volta all’Extraball di Piazza Pio XI, ero ancora un felice possessore di SEGA Saturn, su cui avevo consumato il folle picchiaduro di AM2 chiamato Fighters Megamix. In quell’improbabile carnevale marziale si potevano controllare personaggi provenienti da vari titoli SEGA, tra cui i combattenti di Virtua Fighter, quelli di Fighting Vipers e altri ospiti improbabili, come Dean di Dynamite Dux e la mitica Hornet di Daytona.

Tra i personaggi inediti c’era Janet, la poliziotta di Virtua Cop 2, caratterizzata dal set di tecniche di Aoi Umenokoji. Avendo fatto pratica per settimane a casa con l’elenco delle mosse sempre a disposizione, ero diventato piuttosto bravo con Janet. Forte dell’esperienza casalinga, andai all’Extraball per giocare a Virtua Fighter 3 selezionando Aoi, con cui mi esibii in una tronfia manifestazione di forza ed esperienza. Ricordo ancora i commenti di un ragazzo che, affascinato dalle combo, disse con aria stupita: “Ma allora ci sono le mosse, in questo gioco!”

Quelle semplici parole non fecero che confermare la scarsa accessibilità di Virtua Fighter rispetto ai diretti concorrenti, lasciandomi con una sensazione amara difficile da cancellare. Ormai era chiaro. Quella di Virtua Fighter era una serie che poche persone avrebbero continuato ad amare e seguire con passione.

Tutto questo si è riconfermato anche negli anni seguenti, con l’uscita dello splendido quarto capitolo della saga. Quando SEGA pubblicò Virtua Fighter 4, in Italia le sale giochi erano ormai un lontano ricordo e l’esperienza si era spostata a casa.

Orfana di una console proprietaria, SEGA convertì il proprio titolo di punta su PlayStation 2, offrendo per la prima volta un’esperienza corposa, ricca di contenuti e, soprattutto, accompagnata da uno dei tutorial più completi di sempre.

Il tutorial di Virtua Fighter 4 mi mise per la prima volta di fronte a termini di cui non avevo mai sentito parlare, aprendomi letteralmente un mondo fatto di limiti da superare con impegno, passione e divertimento.

Se oggi su Street Fighter 6 potete migliorare grazie a un tutorial ricco, corposo e dettagliato, gran parte del merito è proprio di SEGA, che all’interno di Virtua Fighter 4 per PS2 mise insieme una serie di lezioni e di esercizi con cui accompagnare i neofiti nel complesso labirinto di termini e tecniche che da anni circolavano delle community dei giochi di combattimento. Io stesso, pur giocando da una vita, ho imparato molto da quel tutorial, avvicinandomi per la prima volta a concetti fondamentali con cui i giocatori giapponesi erano in contatto da tempo immemore.

Dopo un momentaneo raffreddamento dovuto a un terzo capitolo che non mi ha mai convinto del tutto, con Virtua Fighter 4 il mio amore per la serie è tornato ad ardere senza freni. Gonfio di passione ho coinvolto ancora una volta il mio vicino di casa, con cui abbiamo passato interi pomeriggi a sfidarci senza sosta.

Ogni giorno, dopo pranzo, ripassavo le command list dei miei personaggi preferiti, per assicurarmi di memorizzarle a dovere e per analizzare il comportamento di ogni singolo colpo. Il mio approccio al genere era diventato più tecnico e la presenza di una modalità di allenamento ben strutturata mi permetteva finalmente di andare oltre il solito approccio “pane e salame”. Nel pomeriggio mi incontravo col vicino di casa per qualche ora di sane mazzate.

Virtua Fighter 4 era favoloso. Il gioco era molto più rapido e dinamico dei capitoli precedenti. Le schivate associate ai movimenti dello stick, la qualità delle animazioni e la potenza trasmessa da ogni singolo colpo rendevano le partite intense ed emozionanti, anche nelle sessioni rilassate con gli amici. Fu proprio con Virtua Fighter 4 che mi affacciai per la prima volta fuori dallo stagno in cui avevo giocato per tanti anni, imbattendomi in giocatori assurdi, agguerriti e tecnicamente mostruosi.

Insieme a Street Fighter 3 Third Strike, Virtua Fighter 4 è stato il gioco del mio primo contatto con le scene internazionali, tramite siti sviluppati dalle community (VFDC), pieni di video, consigli e tecniche per migliorare. Virtua Fighter 4 (e il successivo Virtua Fighter 4 Evolution) è stato anche uno dei picchiaduro che ho giocato di più quando lavoravo nella redazione di PS Mania e Game Republic, con intense chiuse in pausa pranzo in compagnia di colleghi altrettanto appassionati.

Nei capitoli più recenti di Virtua Fighter, i personaggi sono divisi in categorie di peso che stabiliscono l’altezza massima a cui possono essere lanciati, influenzando anche le combo. Su Taka-Arashi, per esempio, molte combo aeree non entrano e le prese hanno tutte animazioni differenti, specifiche per il personaggio.

Cinque anni dopo l’uscita del quarto capitolo (senza contare i vari aggiornamenti successivi), nelle sale giochi giapponesi uscì il quinto episodio della serie, sviluppato su hardware SEGA Lindbergh e caratterizzato da una veste grafica semplicemente incredibile.

Come da tradizione, il primo impatto con il nuovo capitolo lasciava a bocca aperta. Gli sviluppatori avevano aggiornato il design e il gameplay di tutto il cast, avevano fatto tornare Taka-Arashi (escluso dal quarto capitolo per motivi tecnici, perché l’hardware dell’epoca non permetteva di gestire in modo convincente i corpi fisici “morbidi”, e per motivi di gameplay, dal momento che volevano alzare i ritmi di gioco) e avevano aggiunto due nuovi personaggi, ampliando ulteriormente il paniere di arti marziali a disposizione dei giocatori e incrementando la varietà, senza rinunciare al realismo e alla complessità.

Virtua Fighter 5 costituisce il punto di arrivo della serie, anche a causa della decisione di SEGA di non sviluppare il tanto atteso sesto capitolo. Pur senza contare sulle meccaniche di comeback ormai presenti in tutti i giochi di combattimento moderni, Virtua Fighter 5 sembra un gioco sviluppato solo pochi mesi fa.

Gli scontri sono intensi, divertenti, dinamici e ricchi di momenti spettacolari, ma rispetto ad altri titoli dello stesso genere, sempre più legati alla spettacolarizzazione degli eSport, risultano meno “televisivi”. La presentazione prima dei combattimenti è spartana, mancano gli elementi di spettacolarizzazione tanto cari al pubblico e ai commentatori (come i colpi al rallentatore dei nuovi Tekken) e, soprattutto, la durata dei round è ancora molto ridotta.

In questa tessera sono conservati i dati del personaggio che ho usato quando sono andato in Giappone. Nelle sale giochi giapponesi era (è?) possibile salvare i dati del proprio personaggio su queste schede, per registrare le statistiche di ogni sessione e personalizzare l’aspetto del lottatore.

Sembra un dettaglio da poco, ma è un elemento chiave nello sviluppo dei picchiaduro moderni. Durante gli streaming dei tornei, i round troppo corti o troppo lunghi tendono a essere meno apprezzati dal pubblico e non aiutano i commentatori a creare la giusta atmosfera per coinvolgere il pubblico da casa.

Il vero elemento discriminante di Virtua Fighter 5, anche nella sua recente versione Ultimate Showdown, è il netcode Delay-Based, caratterizzato da prestazioni molto meno godibili rispetto all’ormai ben più diffuso Rollback. Nei picchiaduro attuali il gioco online è un elemento chiave per garantire una buona penetrazione tra i giocatori. Il fatto che SEGA abbia provato a rilanciare uno dei propri giochi di punta commettendo una simile leggerezza è imperdonabile.

Come avrete ormai capito, la serie di Virtua Fighter è stata una presenza costante nella mia vita di appassionato di videogiochi. A casa ho il cabinato arcade originale di Virtua Fighter 5 Final Showdown, uno splendido SEGA Lindbergh, con l’ultima versione arcade del gioco (non quella uscita su PS4, quindi). Per me è stata, e sarà sempre, una passione indimenticabile.

Senza arrivare ai miei eccessi, tutti noi dobbiamo qualcosa a SEGA, a Yu Suzuki e ad AM2, per lo sviluppo di questi picchiaduro. Senza Virtua Fighter non avremmo avuto Tekken, Dead or Alive e mille altri giochi di combattimento 3D. Senza Virtua Fighter la prima PlayStation avrebbe avuto un hardware molto diverso, più orientato verso la grafica 2D. Senza Virtua Fighter non avremmo avuto Shenmue (e, di conseguenza, il mare di avventure moderne a cui amiamo giocare ancora oggi, compresa la serie di Yakuza). Ora, non possiamo fare altro che sperare che SEGA ci stupisca ancora, con un nuovo capitolo di una saga che ha lasciato un segno importante nella storia dei videogiochi. Buon compleanno, Virtua Fighter. Cento di queste combo.

Quelli onesti!

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Il vero finale

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