Axiom Verge: distruzione e ricostruzione dello spazio nel metroidvania
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
C’è sempre stato un equivoco attorno all’opera di Thomas Happ, di quelli che nascono da una certa superficialità di analisi o da un voler parlare per forza per rassicuranti similitudini e paragoni. Che Metroid abbia influenzato il solitario sviluppatore statunitense è un dato di fatto, palese e dichiarato, ma che Axiom Verge ne sia un’emule sarebbe altrettanto fuorviante dirlo. Certo, nel 2015 di Metroid bidimensionali non se ne vedevano neanche col binocolo, a parte il redivivo AM2R, perseguitato dai legali Nintendo come un eretico dalla santa inquisizione e mai lanciato legalmente; Axiom Verge era sicuramente la cosa che più si avvicinava a quel desiderio mai sopito di un post-Fusion, che però si sarebbe fatto attendere fino a questi giorni, sei anni e una MarcurySteam in stato di grazia dopo. Un po’ come chi si stracciò le vesti annunciando l’arrivo del nuovo F-Zero con l’ottimo Fast Racing Neo, nostalgia canaglia. Fuori dall’hype però, giocato anni dopo, contestualizzato, Axiom Verge si è rivelato come una delle più riuscite e per certi versi innovative interpretazioni del metroidvania tutto, un intimo e ideale ROM hack dell’opera di Satoru Okada e Yoshio Sakamoto.
In modo meno punk e anarchico di come Michele “Hiki” Falcone ha infettato il codice di Pokémon Rosso per dare vita a quell’organismo digitale purulento e distorto che è Plaguemon, percorrendo la via commerciale, Happ ha contaminato le regole e l’estetica delle avventure di Samus Aran raccontandoci un mondo alieno dove Giger incontra l’8-bit mentre bug, glitch e filtri CRT diventano elemento di design, linguaggio, incastonati in una dimensione ludonarrativa sospesa, ambigua, straniante. Uno squarcio nello spazio-tempo che risucchia Trace dal suo laboratorio in New Mexico, trascinandolo verso l’ignoto. Le texture che si smontano e distorcono, lasciando intravedere le viscere di una direziona artistica bio-meccanica angosciante dove anche la nuda roccia dà l’impressione di essere viva, respirando, osservando. I pixel che sfarfallano e pulsano laddove inizialmente ci impediscono l’accesso, come se il codice di programmazione avesse ceduto, franando sotto il peso di un’erosione virtuale o di un hacking controllato, premeditato, alterato da una radiazione capace di fondere piani dimensionali in un organismo architettonico deforme.
Pile di cadaveri ammassati tra le mura di mausolei alieni che raccontano di civiltà estinte, caverne organiche, save point come linfonodi che continuano a produrre copie di noi stessi, facendoci carico di un mistero asfissiante, eliminando anomalie, procedendo in un debug istintivo per aprirci nuove strade, restituendole al loro disegno originale, andando poi a modificare direttamente il DNA delle creature di Sudra, trasformandole in aberrazioni, errori, distorsioni. È tutto controllato, studiato a tavolino, ma la sensazione che si prova è quella di rompere le regole del metroidvania, infilarsi tra le maglie del videogioco lacerandone il tessuto, come gli speedrunner che sfruttano varchi invisibili al giocatore medio, esplorando quelle che sembrano vecchie build, residui di programmazione, in cerca di risposte come chi scavò alla ricerca del diciassettesimo gigante di Shadow of the Colossus. Ipnotizzati da profondissimi bassi sintetici, guidati da entità bio-meccaniche imponenti, gusci metallici di terminazioni nervose logore come cavi elettrici scoperti, stanche ma ancora abbastanza potenti da imporci la loro volontà attraverso il gameplay. Un file corrotto più che emulato, sporco ma assolutamente funzionante, re-ingegnerizzato per essere tanto familiare quando estraneo, criptico, altro, spingendoci a rispondere con la memoria muscolare a sollecitazioni audio-visive inedite.
Un fascino perverso, repulsivo ma al contempo magnetico unito a un level design frastagliato, grezzo, di quelli che Nintendo difficilmente avallerebbe ai suoi sviluppatori, osando per diventare classico. Un trionfo. Ma Happ, intelligente, talentuoso, estremamente consapevole, osservando con attenzione l’evolversi della skyline dei metroidvania da quel 2015, con la rivalsa della scena indipendente e il ritorno insperato di Metroid (perché dopo il bellissimo Samus Returns era quasi sicuro che da Kyoto avrebbero voluto ancora di più da MercurySteam), ha deciso di mettersi al lavoro su un seguito estremamente coerente ma totalmente diverso, capace per certi versi di reinventare il concetto di spazio e movimento nel genere, spingere la sua ambizione ancora più in là. L’Antartide spartita come una carcassa dalle mega corporation mondiali, affamate di risorse e profitto come la Globe 3 Conglomerate di Indra Chaudhari, recatasi di persona sul posto per visitare la base appena acquistata, abbandonata dopo la scomparsa di Elizabeth Hammond (vecchia conoscenza del primo capitolo), scoprendo un portale a senso unico verso Kiengir, mondo post-bellico teatro di uno scontro epocale tra civiltà, attorno ai cui resti fiorisce però una natura rigogliosa, colorata, riconoscibile; un’atmosfera totalmente diversa dall’opprimente e marcia Sudra.
Qui Happ è salito di livello anche come sceneggiatore, popolando queste rovine con altri umani rimasti intrappolati, tutti alla ricerca di una via d’uscita ma anche del devastante potere custodito dal Lamassu, sacra entità bio-meccanica (leit-motiv) ispirata alle divinità assire, capace di trasformare le persone in armi, sublimarne l’essenza, l’anima, per essere assorbite dagli eletti guerrieri Sagiga nella disperata lotta contro gli invasori alieni Udug. C’è tutto un altro respiro culturale, una mitologia meno criptica e deviata, più descrittiva e storica, dove il gameplay si comporta di conseguenza, dandoci gli strumenti per esplorare più che per combattere, privandoci della componente shooter in favore della difesa all’arma bianca. Scontri che si comincerà in fretta ad aggirare con l’astuzia e coi poteri psichici di Indra, capace di controllare la fauna robotica del pianeta, giocando una sorta di stealth artigianale e mai eccessivamente stressante. Tanto platforming, la possibilità di arrampicarsi sulle pareti verticali e un level design più interconnesso, che crea continuamente scorciatoie, rendendo subito l’idea di trovarsi all’interno di un metrodvania d’ingegno più che d’azione. Un’opera che ha il coraggio di eliminare le boss fight, rendendole tutte opzionali (tranne un paio per motivi narrativi e dove comunque è praticamente impossibile morire) per esaltare la fluidità di un titolo ritmato col metronomo, eliminando quegli spigoli che avrebbero rischiato di interrompere un costante apprendimento, sia narrativo che geografico, grazie a uno dei migliori map design che abbia mai avuto il piacere di scoprire e completare.
Una mappa fronte-retro, lacerata da varchi dimensionali che solo il nostro piccolo aracno-drone è capace di attraversare, rivoltando estetica e gameplay da 16 a 8 bit, passando da sonorità mediorientali conturbanti, acustiche, graziate da intensi cori femminili a un’elettronica pura d’ispirazione chiptune, cambiando peso specifico, mobilità, azioni senza soluzione di continuità. E se si può obiettare che The Messenger lo faceva già tre anni fa, a modo suo, è l’evoluzione di questa meccanica a lasciare senza parole. Perché esattamente come il primo capitolo, da un certo punto, andava a rompere una ad una alcune consuetudini di game design, Axiom Verge 2 consegna in mano al giocatore gli strumenti per spostare i varchi, attrarli in una nuova posizione per sbucare in un punto che sembrava irraggiungibile, vederne di nascosti o ancora dandoci la possibilità di uscire dalla dimensione parallela senza dover passare da un punto prestabilito, ormai fusi al nostro drone; non più corpo estraneo ma trasformazione immediata, geneticamente integrata. Consultare la mappa diventa attività ludica, piacere, enigma, studio: due schemi sovrapposti che vivono all’unisono. Una sensazione di libertà tridimensionale in un contesto 2D che ha veramente dell’incredibile per il senso di stupore che riesce a creare, un’asse Z simulato ma tangibile, intuitivo e illuminante come chi spiega i buchi neri piegando un foglio e bucandolo con una matita. Bucare la mappa per eliminare quell’incedere schematico tipico del genere, quello che porta il giocatore esperto ad anticipare la progressione e sottrarre meraviglia, sentendosi sempre un passo avanti allo sviluppatore.
È questo modo di vivere lo spazio e di stilizzare mondi complessi in due dimensioni che permette a Thomas Happ di sedersi sul trono del genere in un’epoca che l’ha visto letteralmente esplodere, inventando, riassemblando e reinterpretando un costrutto di game design estremamente rigido, quasi dogmatico, trasmettendo un sense of wonder differente da qualsiasi altro (e quasi sempre ottimo) metroidvania contemporaneo. Pietre angolari come lo sono stati Super Metroid e Castlevania: Symphony of the Night, ma anche manifestazioni virtuali del genio di un autore visionario, capace di legare le proprie idee al genere con una naturalezza da predestinato, trasformandolo nella sua tela per raccontare possibilità, esplorazioni, sensazioni dallo spazio profondo.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Metroid e ai metroidvania, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.