Benvenuti a Marwen sarà anche un po' incostante ma, ehi, resta pur sempre un film di Zemeckis (con una DeLorean)
Poco prima di Natale, sono uscito dall’anteprima di Benvenuti a Marwen facendo voto giudizioso di scriverne durante le feste, per portarmi avanti. Poi è successo che sono stato risucchiato da un gorgo brutto di panettoni, alcool e cocktail di scampi che mi ha totalmente obnubilato il cervello, impedendomi non dico di buttare giù due righe, ma di fare qualsiasi cosa che non fosse mangiare, guardare serie a caso su Netflix (senza portarne a termine nemmeno una) e giocare con la micia.
Così, mi ritrovo a scrivere dell’ultimo film di Robert Zemeckis sul pelo dell’uscita italiana, prevista per oggi, ma fortunatamente la decantazione non ne ha sminuito la gradevolezza (checché ne dicano gli americani cattivi).
Sarà che io a Zemeckis voglio un sacco di bene per via di Ritorno al futuro, naturalmente, ma anche per il modo in cui nel corso degli anni è riuscito a far evolvere la sua poetica e la sua estetica senza sedersi. Sarebbe facile fermarsi alle apparenze e liquidare il cineasta di Chicago come un regista di genere uscito dalle fila della nuova-nuova Hollywood, ma la verità è che il nostro non si è mai tirato indietro davanti al gusto e al rischio di esplorare situazioni e addirittura linguaggi anche molto diversi tra loro.
Al di là delle avventure di Marty e Doc, Zemeckis, in vita sua, è passato da una commedia musicale come Allarme a N.Y. arrivano i Beatles! all’animazione ibrida di Chi ha incastrato Roger Rabbit. Ha raccontato l’America contemporanea con Forrest Gump e ha esplorato il thriller alla Hitchcock con Le verità nascoste, per poi sperimentare robe con Polar Express, La leggenda di Beowulf e A Christmas Carol. Oddio, in qualche modo, si è perfino confrontato con Kubrick, se pensiamo a Contact. Non sempre gli ha detto bene; assieme ai successi e agli Oscar, sono arrivati pure un po’ di fiaschi ma, oh, capitano pure quelli.
Oggi, terminata quella specie di trilogia spielberghiana composta da Flight, The Walk e Allied - Un'ombra nascosta, il nostro torna a mescolare live action e animazione (a passo uno, questa volta) con Benvenuti a Marwen, scritto assieme alla veterana Caroline Thompson, che tra le altre cose ha firmato La sposa cadavere, Nightmare Before Christmas ed Edward mani di forbice.
In effetti, in giro per il film, l’odore di Burton un po’ si sente. Non tanto per le scelte d’animazione quanto, piuttosto, per i toni generali del racconto e la caratterizzazione del protagonista, che nei suoi feticismi ricorda l’Ed Wood dell’omonimo film (oddio, per certi versi pure il Travis Bickle di Taxi Driver, ma vabbé). Di contro, le scelte di fotografia e il continuo andirivieni tra reale e fantastico, con tanto di strega, battono il cinque a Big Fish.
Benvenuti a Marwen, ancora non l’ho detto, è tratto da una storia vera, che prima del film ha servito il documentario Marwencol, di Jeff Malmberg, e racconta dell’artista Mark Hogancamp, che nell’aprile del 2000 venne ridotto in fin di vita da un gruppo di uomini fuori da un bar.
In seguito all’aggressione, Mark perse la memoria e, nel tentativo di elaborare il trauma (e non potendo più disegnare come prima), iniziò a dedicarsi alla fotografia artistica. Nello specifico, ricostruì con gli artifici del modellismo un villaggio belga della Seconda Guerra Mondiale, popolandolo di action figure a immagine sua e delle donne che gli diedero una mano a tirare avanti dopo l’incidente. Fotografando e immaginando le vite degli abitanti di Marwen (Marwencol, in originale), Hogancamp iniziò così un percorso artistico/terapeutico, che finì col procurargli anche un discreto successo.
Nel film, Zemeckis ha scelto di animare a passo uno le creazioni del fotografo, facendole continuamente interagire con la realtà, per evidenziarne le implicazioni terapeutiche. L’impianto metaforico, va detto, è fin troppo scoperto, così come tutto il discorso dell’auto citazionismo e dei giochetti meta al limite del fanservice. Nel film compare pure un modellino della DeLorean volante, con tanto di scie spaziotemporali residue, e la scelta di infilare nei panni del protagonista e del suo alter ego in miniatura proprio Steve Carell fa un po’ blink-blink al tizio di 40 anni vergine fissato con le action figure. Sempre volendo scassare, anche il ritmo non è proprio straordinario, e in generale si passa con un po’ troppa facilità dalla trovata ganza alla cosa un po’ meh.
Eppure, tutto il cast è davvero in vena, a cominciare proprio da un Carell perfettamente a suo agio nel ritrarre un uomo afflitto da un trauma profondo e dedito all’evitamento. Pizzicando le corde giuste, già dalle prime scene l’attore riesce a fare intendere allo spettatore che non tutte le ambiguità e le stramberie del protagonista sono frutto dell’aggressione.
Brave pure Eiza González, Leslie Zemeckis, Merritt Wever, Gwendoline Christie (quella de Il trono di spade e dei nuovi Star Wars, quasi irriconoscibile in borghese), Stefanie von Pfetten, Janelle Monáe e Leslie Mann, anche se il doppiaggio italiano ha finito per segarmi una bella fetta delle loro interpretazioni.
Con un cast e un registro complessivo così a fuoco, pure al netto di una progressione non sempre costante, Zemeckis può permettersi di ridurre al minimo flashback e backstory, concentrandosi sulla messa in scena del presente. Giocando sul continuo va e vieni tra realtà in live action e fantasia a passo uno, il nostro porta a casa una bella manciata di sequenze tarate dal buono all’ottimo, che mi hanno ricordato un po’ certe trovate dello Small Soldiers di Dante (oddio, all’epoca mi pareva bello: lo era?).
In mezzo a tutti quei soldatini e a quelle bambole, viene facile per lo spettatore empatizzare con le difficoltà del protagonista e seguirne il percorso di riabilitazione fino allo scioglimento finale, che è pure meno scontato del previsto.
Poi, per carità, il film, come ho detto, ha anche qualche grana. Tirando le somme, potremmo parlare di uno Zemeckis “minore”, eppure, boh, non credo affatto si meriti quel 29% di pomodorometro né il flop di botteghino che ha rimediato negli USA. Per me è Frechete di incoraggiamento, via.
Come ho scritto all’inizio di questa recensione, ho guardato Benvenuti a Marwen in anteprima grazie a una proiezione stampa, alla quale siamo stati gentilmente invitati. Il doppiaggio in lingua italiana è sopra la media, ma purtroppo brasa i contributi degli attori alle controparti in stop-motion. A margine: dopo quella di Ready Player One, questa è la seconda DeLorean che vedo al cinema nel giro di pochi mesi, pensa te.