Braid è la mia più grande vergogna videoludica
Io lo so che questo pezzo dovrebbe parlare di viaggi nel tempo e altre amenità cronologiche delle quali Braid è pieno (circa) (non sono proprio viaggi nel tempo) (è più Prince of Persia che Chrono Trigger), ma la verità è che le uniche robe che mi vengono sempre in mente quando ripenso a Jonathan Blow e ai suoi giochini sono a) che lui è più intelligente di me e b) che ho fatto tante cose di cui mi vergogno nella vita, ma non finire Braid è probabilmente la più grave. È successo quasi vent’anni fa: in un certo senso questo pezzo è effettivamente un viaggio nel tempo, quindi sono OK con la consegna.
La storia di Braid la sapete anche perché è stata raccontata e ri-raccontata in tutte le salse, sia dal suo stesso creatore (qui, per esempio, c’è una lunga intervista che spiega molto sul gioco e su come sia stato concepito), sia da miliardi di approfondimenti su tutti i siti videoludici del mondo, sia in Indie Game: The Movie, un documentario che fece scoprire a un sacco di gente che esiste anche un modo poco costoso per fare videogiochi belli, e trasformò “indie” in una parola magica per vendere di più che viene spesso applicata a roba che con l’indipendenza creativa e finanziaria c’entra poco. Ma questo è un discorso collaterale: il punto è che Braid ebbe la fortuna di essere (circa) il primo gioco di queste dimensioni a sbarcare non su PC ma su una console, tramite l’allora trasformativo servizio Xbox Live Arcade, e quindi divenne un simbolo, una sineddoche, una parte per il tutto. “Esistono i giochini indie, e Braid è un giochino indie: compratene altri, sono altrettanto belli” era l’idea, e la storia ci insegna che andò benissimo. Ma appunto, è un’altra storia, come lo è il fatto che Blow avesse deciso di creare Braid per fare cose intelligenti tipo “decostruire” o “analizzare criticamente” gli standard di game design dell’epoca.
La mia storia è più semplice: ho fatto una tesi di master su Braid. Non solo su Braid, ma partendo da Braid: il tema era “la rappresentazione del nucleare nei videogiochi”, e quello di Blow era uno dei miei due punti di riferimento principali insieme a Fallout (c’era anche altra roba, da Sim City a Civilization, ma non vorrei perdermi). Direte “ma Braid non parla del nucleare”, invece sì!, forse, quantomeno parla anche di quello, come sapreste anche voi se l’aveste portato a termine. O anche no: io, per esempio, non l’ho mai portato a termine, come non ho mai completato The Witness, sempre per tornare al discorso “Blow è più intelligente di me”. Ma se The Witness l’ho mollato verso la metà arrendendomi senza vergogna alla sua difficoltà incompatibile con i miei circuiti cerebrali, a Braid giocai per ore, giorni, settimane, perché volevo sapere tutto il sapibile (?), come ogni bravo accademico che affronta un argomento in una tesi serissima e potenzialmente pubblicabile.
E arrivai molto avanti, quasi fino in fondo: ci sono sei capitoli (+1), e ognuno di questi introduce nuove meccaniche e nuove variazioni sul tema “riavvolgi il tempo e riprovaci”. Mi ci spaccai la testa, anche se non avendolo toccato da allora non saprei dire esattamente perché – chissà, magari ora che sono più vecchio e più esperto troverei certi puzzle più semplici, o forse il contrario perché invecchiando mi sono rincoglionito? So che il gioco richiedeva un bel mix tra capacità di pensare, prevedere e anticipare e i cari, vecchi riflessi. Serviva pianificazione ma serviva anche esecuzione: io sono sempre stato più bravo nella seconda, e ricordo che già i primi livelli di Braid mi fecero ammattire, anche se con delicatezza.
Poi, a un certo punto, arriva il sesto capitolo, nel quale oltre a fermare e riavvolgere il tempo, Braid comincia a darti la possibilità di rallentarlo. Non so cosa avessero di preciso quei livelli, forse il fatto di arrivare in fondo e quindi essere naturalmente più difficili dei precedenti, per quanto Blow insista che non c’è alcuna curva di difficoltà nel gioco e che è tutto un po’ a caso (in senso buono) (creativamente, diciamo), non so cosa avessero, dicevo, fatto sta che mi bloccai. Passai un buon paio di giorni a sbattere la testa contro non ricordo quale enigma, senza neanche avvicinarmi all’idea di poterne venire a capo. E a quel punto mandai a cagare Jonathan Blow, e considerai anche di cambiare il tema della mia tesi.
Dovete sapere, voi che siete giovani, che nel 2008 YouTube era ancora in bianco e nero e andava a carbonella, e trovare video di walkthrough dei giochini era difficile e soprattutto pixellato. Ci si appoggiava ancora, pensate voi, ai walkthrough testuali, nei quali un tizio spesso con una sommaria conoscenza dell’inglese provava a spiegare a parole come eseguire operazioni difficilissime che anche a vederle con i propri occhi ti fanno pensare “ma come fa?!” – figuratevi quanto erano comprensibili quelle pagine di solo testo, solo raramente accompagnate da qualche foto altrettanto a bassa risoluzione.
E poi io ero testardo, orgoglioso e con più tempo libero di quanto ne abbia oggi: volevo finire Braid con le mie forze, non farmi aiutare dagli scritti di _xXPussySlayer420Xx_ su Wikia. Era uno dei soggetti centrali della mia tesi: potevo forse discuterne senza aver visto tutto quello che c’era da vedere e capito tutto quello che c’era da capire?
A quanto pare sì: come detto, dopo un po’ mandai a cagare Blow (affettuosamente, come fai con qualcuno che ti ha battuto onestamente) e decisi che non avrei mai finito Braid. Mi lessi tutti i walkthrough che si trovavano in giro, scrutai quegli ammassi di pixel caricati su YouTube e mi feci un’idea di cosa succedesse nell’ultimo capitolo + epilogo. Presi un sacco di appunti. Non provai neanche a replicare nel gioco quello che stavo vedendo sul computer, e non solo perché i due oggetti erano in stanze diverse della casa: era diventata ancora una volta una questione di principio. “Ho perso, non ce la faccio, sei meglio di me”. Mi arresi e accettai l’aiuto di PussySlayer420. Dedussi tutto quello che non avevo potuto esperire in prima persona e scrissi il primo capitolo della tesi.
Non ho mai più giocato a Braid da allora, e non l’ho quindi mai finito. In sede di discussione, realizzai che nessuno degli esaminatori aveva mai messo le mani su un videogioco in vita sua, e che tutte le mie menate sul completismo e la conoscenza erano appunto tali: se i giurati dello Strega non leggono tutti i libri che giudicano, è così strano che un tizio a caso sia riuscito a pubblicare una tesi su un gioco che non ha mai finito? L’idea di riprenderlo e riprovarci mi ha anche sfiorato, qui e là, un paio di volte. L’ho accarezzata come si accarezza un cactus (= con estrema prudenza) e l’ho sempre mollata, per motivi ogni volta diversi: “Ho appena finito Fez e non voglio spaccarmi ancora la testa”, “Tra poco esce The Witness e vediamo prima se mi aiuta a far pace con Blow”, “Oggi proprio non posso, devo andare a salare l’acqua del mare che ieri mi è parsa un po’ sciapa”. Avrei voluto riprovarci in occasione di questo pezzo, ma ahimè, pioveva.
Oggi so come finisce Braid, eh, e so anche che il suo modo di usare i viaggi nel tempo è strumentale e puramente ludico: dice veramente poco sull’esperienza in sé, se non per usarla come proxy per parlare di rimorsi e rimpianti. So come si completano tutti i suoi puzzle, perché nel frattempo YouTube ha aggiunto un sacco di pixel al suo servizio. Ma non ne voglio comunque più sapere nulla: mi vergogno ancora oggi di non averlo mai finito, e di ciò che questo ha causato nella mia vita (= assolutamente nulla). Non è l’unico gioco della mia vita che ho mollato prima dei titoli di coda, ovviamente; ma a mia memoria è il primo (o almeno il primo dai tempi di TNMT su NES) che ho mollato dicendo “non sono all’altezza”. È un’onta della quale non mi sono ancora liberato. Sono felice di avere avuto la possibilità di sfogarmi in questa sede. Per favore, non giudicatemi.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a viaggi nel tempo e paradossi temporali, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.