Il pezzo sul Famicom che mi ha chiesto Maderna
Dice Maderna “Ma tipo se ti chiedessi di scrivermi un pezzo per i quarant'anni del Famicom?”, e io penso “ah certo, il Famicom. Anch’io ho quarant’anni, sarà un modo per farmelo notare senza farmelo pesare? Sarà una parola in codice, ‘Famicom’, che significa ‘sei un vecchio’?”. Perché figuratevi se io sapevo cosa fosse il Famicom, nel 1983; ma pure nel 1990 quando mi venne regalato per Natale. FAMICOM! Mica si chiamava così. A me avevano regalato “il Nintendo”, che poi a un’analisi più approfondita si rivelò essere “il Nintendo Entertainment System”. Che roba è il Famicom? Ai tempi Internet era ancora fatta di legno e ci mettevi sei mesi a cercare un’informazione: sulla scatola che avevo trovato sotto l’albero di Natale c’era scritto NINTENDO ENTERTAINMENT SYSTEM, non Famicom. Come faccio a fare un pezzo sui quarant’anni del Famicom se non so cosa sia?
Ovviamente sto esagerando a uso gag e ora che Internet è finalmente fatto di ferro e vanadio so benissimo cos’è il Famicom perché l’ho letto su Wikipedia. Non so neanche perché mi sono andato a infilare in questo vicolo cieco dei sinonimi: forse è perché mi sono reso conto che la maggior parte delle robe da ospizio che ho da dire sul NES le ho già raccontate qui, qui, qui e qui, tra le altre cose. Il mio primo videogioco tutto mio, la mia passione per il fantasy e la gente vestita di verde, quella volta che ricevetti in eredità una camionata di giochi che il mio amico viziato aveva scartato perché gli avevano regalato lo SNES – scusate il SUPER FAMICOM… quando diventerò ricco e famoso e scriveranno la mia biografia, ci sarà un intero capitolo dedicato al NES, e Outcast ne sarà la fonte primaria. Cosa posso raccontare in queste righe che non abbia già trovato posto altrove?
Per esempio: una roba che mi ronza sempre in testa pensando al Nintendo – e sì, per me rimarrà sempre “il Nintendo”: c’era il Nintendo, il Super Nintendo e poi il Game Boy, che da sarebbe stato corretto chiamare “Mini Nintendo” in ossequio alla mia tassonomia, ma la grande N rossa che non è Netflix non mi ha mai ascoltato a riguardo. Dicevo: una roba che mi ronza in testa quando penso al Nintendo è che potrebbe essere l’unica console della mia vita che non è rimasta indietro quando è arrivata la sua sorella più fregna. Cioè: il Super Nintendo fu una rivelazione, ovviamente, e A Link To The Past il gioco più importante della mia vita, fino a quel momento ma pure dopo. Uno dei primi giochi che comprai per lo SNES fu Secret of Evermore, che mi portò via credo un anno di vita. Voglio dire che ci giocavo un sacco, al Super Nintendo, ed ero felicissimo che ce l’avessero regalato. Ma ogni tanto mi capitava comunque di tornare indietro, di staccare un paio di cavi, riattaccare la vecchia scatoletta rettangolare grigio topo e mettere su uno dei due Zelda, o Super Mario Bros. 3.
A un certo punto della mia esistenza, non so in seguito a quale magia, in casa nostra entrò questo oggetto qui:
È un coso che infili nel Super Nintendo e ti permette di giocare anche con le cassette del Nintendo (e pure quelle del Game Boy, grazie a un ulteriore accrocchio che ora non ho voglia di andare a recuperare). Per cui lui arrivò e rese ancora più facile e immediato lo switch (non la Switch, quella è arrivata anni dopo). Risultato: ricominciai a passare più tempo dietro ai giochini del NES che a quelli dello SNES. Oh, per il secondo avevo della gran bella roba, intendiamoci! Ma non riuscivo a lasciarmi alle spalle le mie origini, né la tentazione ogni tanto di riprovare a stare sotto i dieci minuti speedrunnando il primo Mario, o entro l’ora per il terzo. Bellissimo Demon’s Crest, ma dopo un po’ mi veniva voglia di TMNT. Amavo un sacco il primissimo FIFA, ma amavo ancora di più farmi sfottere dall’IA in Soccer, ancora oggi il più grande gioco di calcio mai creato. Che poi non è vero: faceva schifo, anche al netto dell’età e dei limiti. Però era SOCCER! Mi rendo conto che sto girando in tondo e non sto giustificando nessuna delle mie assurde affermazioni. Il mio punto è che passai dal NES allo SNES e poi dallo SNES al PC per tanti anni, e ritornai a pitoccare con le console quando uscì la prima Xbox e vidi le immagini di Halo, a proposito di esperienze che ho già affrontato su queste pagine. E quando passai dall’Xbox alla 360, smisi di giocare alla prima. E quando passai dalla 360 alla PS3, smisi et cetera. Ho una PS4 che poverina langue sullo scaffale delle console da anni, guardate dall’alto in basso dalla sua gigantesca sorella con il 5 nel nome. Gli ultimi vent’anni sono stati un costante upgrade e quindi un costante abbandonare le versioni percepite come sfigate. La PS3 ha 549,12 grafiche al secondo? La PS4 ne ha 666,66! Sono un sacco di grafiche in più! Perché dovrei tornare indietro a quando c’erano meno grafiche?
E perché con il NES non è mai successo? Non che non percepissi il salto di qualità dagli 8 ai 16 bit, anzi ricordo ancora il mio stupore nel constatare che nei giochi per SNES non capitava mai che l’audio si auto-divorasse, e non potete immaginare quanto male mi fece il cervello quando scoprii che in Star Ocean c’era gente che parlava, gente vera! con la voce vera! Io però quando si parla di videogiochi sono un meccanicista prima ancora che un esteta – non credo il termine sia corretto, quello che voglio dire è che mi piace l’aspetto prestazionale dei videogiochi prima ancora che quello atmosferico o narrativo. Mi piace che la roba a cui gioco mi sfidi e mi incoraggi a capirla e a saperla leggere fino all’ultima frazione di frame. Mi piace anche la prevedibilità e mi mandano ai pazzi le speedrun, anche se più invecchio e meno ho tempo (non è vero, è una cazzata: meno ho i riflessi) per tentarle io e mi ritrovo sempre più spesso a guardare la gente brava che le fa.
E il NES, anche con i suoi pochissimi bit e i pixelloni giganti, era pieno di giochi che stimolavano questa parte rettiliana del mio cervello, questa voglia ancestrale di dimostrare di essere più bravo di coloro che avevano programmato quegli ammassi di colori primari con l’unica intenzione di uccidermi e farmi finire le vite. Di nuovo, non sto dicendo che questa roba mancasse, per esempio, sul Super Nintendo; ma siccome era una console complessa e moderna e avanzatissima, tendevo a vederla più come un macchinone per RPG e altre manifestazioni ludiche analoghe. Avete presente, che ne so, Super Mario World? Ovviamente ne esistono le speedrun, il record glitchless 96 Exit (che significa completare tutti i livelli compresi quelli segreti) è circa un’ora e venti. Ma è un’operazione complessa e che richiede un grado di pianificazione che a dieci anni o quello che era semplicemente non avevo. Super Mario Bros., invece? Boh, quello va dritto. Puoi fare tutti e 32 i livelli, puoi farne solo 6 (se non ho sbagliati i conti) e comunque finire il gioco, ma resta il fatto che devi andare da sinistra a destra molto velocemente e rispondere a stimoli sempre uguali a loro stessi, nemici che entrano a schermo sempre nello stesso frame, percorsi semplici e sempre uguali.
Forse è questo che mi piaceva così tanto del Nintendo e che mi portava a tornarci con regolarità. Era tutto più semplice e sempre uguale, e quindi era più comodo entrare nella zona, quel particolare stato mentale nel quale ti dimentichi quello che stai facendo e non vedi più neanche gli sprite che si muovono ma direttamente la matrice. È una combinazione del fatto che sono innamorato dei meccanismi che regolano il modo in cui si muovono quelle figurine sulla TV e che sono troppo scemo per capirli quando si fanno troppo complicati. Ora faccio un mega-salto concettuale, ma credo che uno dei motivi per cui mi piace così tanto Dark Souls non sia tanto il grado di sfida o l’atmosfera o tutto il bla bla che potete immaginare, quanto il fatto che non riesco a non vederlo come un gioco per NES ripensato in 3D e su scala (relativamente) mastodontica. Un gioco nel quale tutti fanno sempre le stesse cose e sono sempre negli stessi posti, e quindi prevedibile e anticipabile: a quel punto sopravvivere è questione di esecuzione, di pigiare il tasto giusto al momento giusto sapendo con svariati secondi di anticipo quale sia questo tasto giusto. La prima volta che finii Ninja Gaiden, o Shadow Warriors, se preferite, non mi ritrovai mica a esultare e a saltellare per la stanza: il risultato ottenuto (i titoli di coda) era semplicemente la logica conseguenza del fatto che, schermata dopo schermata, avevo imparato come si muoveva il gioco e quindi come dovevo muovermi io per essere meglio di lui. Di nuovo: non sto dicendo che questa roba sia morta con il NES, figuriamoci. Sto dicendo che questa roba, che di fatto stava alla base già dei primissimi videogiochi anche prima del Nintendo Entertainment System, con il passare degli anni è diventata solo una parte, e spesso quella meno importante, di quel tutto sempre più complesso che sono i videogiochi. Con solo 8 bit e tanta fantasia a disposizione, la matrice era più evidente, più centrale, e di conseguenza lo era anche il lato puramente performativo. Salta bene. Non cascare nei buchi. Evita l’uccellaccio. Ammazza l’uccellaccio al volo altrimenti ti becca mentre salti male e ti fa cascare nel buco. Serviva davvero che fossero uccellacci? Per me i giochi del NES erano un’esperienza quasi astratta, avrebbero potuto sostituire Mario con un rettangolo colorato e i Goomba con dei piccoli quadratini e me lo sarei goduto lo stesso.
Forse è per questo che alcuni dei miei ricordi più vividi legati al NES non riguardano i vari SMB3 (il miglior videogioco di sempre), Ninja Gaiden o Battletoads, ma quelle opere più strane, oblique, a tratti illeggibili. Voglio dire che a Super Mario Bros. 3 gioco ancora adesso quando capita, e non so neanche se lo definirei “uno dei giochi della mia infanzia” visto che non mi ha mai mollato. Sapete per esempio a quale gioco non gioco più da decenni? Solar Jetman. Ce l’avete presente Solar Jetman? Era un giochino bizzarro che ereditai dall’ormai famigerato Amico Viziato, che me lo presentò con un caveat grosso così: “Guarda che fa schifo, non si capisce un cazzo”. Ed era tutto vero, almeno per la mia povera mente di dodicenne o quel che era: è un gioco buffo, strano, pieno di idee buttate lì, tutt’altro che lineare, il genere di gioco che non si prende granché la briga di spiegarsi e preferisce che faccia tutto tu. Io non lo capivo, ogni tanto riuscivo a superare un “livello” un po’ per caso, e mi ritrovavo all’improvviso su un altro pianeta a dover fare altre robe incomprensibili usando un sistema di controllo inutilmente intricato e programmato pure malino in termini di inerzia della tua navicella et cetera. Il me di oggi ne ha un ricordo assurdo e affettuoso insieme, e ogni tanto mi viene la curiosità di rimetterlo su per vedere se oggi riesco a proseguire o quantomeno a capire di cosa si tratti. Il me di allora ci giocava qualche minuto poi rimetteva su SMB3 e provava a finirlo senza usare i fischietti.
Mi rendo conto solo ora che sono a un passo dalle 2000 parole e non ho ancora parlato di tutte quelle cose che ci si aspetta di leggere in un pezzo sui quarant’anni del NES:
soffiare nelle cartucce per farle funzionare
soffiare direttamente dentro la fessura del NES per far funzionare la console visto che la cartuccia sul NES dell’amico va che è una meraviglia
il paddino angoloso che ti faceva venire i calli
quella che oggi chiamiamo pomposamente “couch co-op” e che un tempo era semplicemente uno dei due modi in cui si giocava insieme a un videogioco (l’altro prevedeva uscire, andare in sala giochi e usare le cinquecento lire)
quanto era strano Super Mario 2, quanto era strano Zelda 2, quanto erano strani i sequel in generale che poi con il terzo capitolo tornavano in carreggiata per non rischiare troppo (un protocollo che valeva anche per i film di quell’epoca, pensate a Indiana Jones)
quanti pezzi ha venduto nei suoi lunghi anni di vita
Metroid, Castlevania e Mega Man
varie ed eventuali
Ora l’ho fatto, così potete dire di aver letto informazioni interessanti in coda a questo lungo papiro senza capo né coda scritto per celebrare la bellezza della semplicità dei giochini della mia infanzia. Viva il NES, quarant’anni dopo: hai la mia età, ma li porti clamorosamente meglio.