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Cowboy Bebop è la somma di tutte le cose belle

Cowboy Bebop è la somma di tutte le cose belle

Nell’ottobre del 1999, ho sette anni e cinque mesi. Come per ogni bambino mio coetaneo, ci sono alcuni punti fissi e irremovibili nella vita di periferia: la merenda con Girella, Pokémon Blu e i video musicali su MTV. La fine degli anni Novanta è l’epoca d’oro di tali produzioni, che sembrano essere il metodo di diffusione e promozione più remunerativo per il mercato musicale. Girano talmente tanti soldi attorno a MTV che l’emittente americana – o, per meglio dire, la sua divisione italiana – può concedersi il lusso e la sfrontatezza di acquistare i diritti per trasmettere, in prima serata, serie d’animazione giapponesi esterne a quelle del circuito Mediaset.

Nell’ottobre del 1999, la Music Television decide di mandare in onda per la prima volta la serie animata di un quasi esordiente Shinichiro Watanabe, professionista dell’animazione che aveva fatto la gavetta su alcuni anime come I cieli di Escaflowne ed è ora pronto al grande passo verso la produzione autoriale.

Nell’ottobre del 1999, una versione più giovane e con più capelli di chi vi scrive si siede davanti al tubo catodico di camera sua e guarda, inconsapevole e impreparato, una puntata di Cowboy Bebop.

Nell’ottobre del 1999, non ho ancora minimamente idea di cosa sia la vita, quindi è molto facile immaginare la mia reazione: guardo per un cinque minuti, non vedo mazzate supersoniche, spengo e vado a fare altro.

Nel 2007 ho quindici anni. Come ogni adolescente, ho bisogno di una passione che mi faccia sentire parte di un gruppo, fosse anche virtuale. Poco incline all’attività fisica e schiacciato dalla vita di periferia, decido in maniera del tutto autolesionistica di appassionarmi a una serie di cose che mi avrebbero poi condotto a perdere la verginità dopo il compimento dei diciott’anni. Videogiochi, fumetti, musica alternativa, animazione giapponese e tutto il prontuario del tipo strano in fondo alla classe. È in questo periodo della mia vita che ritorna Cowboy Bebop, citato nei forum – Dio li abbia in gloria – come serie d’animazione da non perdere per nessuna ragione al mondo.

Nel 2007 va ancora forte eMule, perciò decido di scaricare tutta la serie, film compreso, e guardarla rannicchiato sulla sedia davanti al monitor a 4:3 del mio PC fisso.

Nel 2007 sono nel pieno della tempesta ormonale, ho bisogno di forti emozioni suscitate da amori impossibili. Non ho ancora la maturità per comprendere la storia d’amore che fa da sottotesto a tutte le puntate di Cowboy Bebop, mi annoio dopo poco, spengo e vado a fare altro.

Nel 2015 ho ventitré anni e la voglia di cercare qualcosa da vedere su Netflix. Scorro fra le pagine della piattaforma, che mi suggerisce di controllare la sezione anime. Cowboy Bebop è fra le serie che lo striminzito catalogo italiano, a pochi mesi dall’arrivo nello stivale del gigante dello streaming, può offrire agli abbonati della prima ora. Forse è il momento di fare ammenda, recuperando una serie che fin troppe volte aveva cercato la mia attenzione, senza che fossi pronto a concedergliela.

Ad oggi, Cowboy Bebop è fra le mie cose preferite di sempre. Non solo all’interno dell’animazione giapponese o della serialità televisiva. Dico proprio della vita. Perché la serie di Watanabe è esattamente la somma di tutto ciò che c’è di bello a questo mondo.

Cowboy Bebop racconta, come ben saprete, le disavventure e le peripezie della ciurma del Bebop. Spike Spiegel, Jet Black, Faye Valentine ed Edward Wong Hau Pepelu Tivrusky IV detto Ed formano, insieme al cane Ein, una banda di cacciatori di taglie interplanetari. Bastano queste poche parole a capire quali siano i due macro-generi da cui Watanabe e soci hanno attinto nella realizzazione di questo capolavoro. Cowboy Bebop è sostanzialmente una serie western ambientata in un futuro prossimo, ma allo stesso tempo remoto. Con i suoi silenzi - accompagnati, si creda o meno, da una colonna sonora da applausi scroscianti - i suoi spazi infiniti, con il suo mondo a, un passo dal crollo, dove bisogna dormire con un occhio aperto e il dito sul grilletto, la serie dello studio Sunrise riprende topos e stilemi di certo cinema statunitense. Non manca poi la fantascienza, ché del resto stiamo comunque parlando di una serie ambientata fra Marte, Venere e i satelliti di Giove.

La fantascienza di Cowboy Bebop, come ogni fotogramma delle ventisei puntate dello show, è un melting pot di influenze, citazioni, lezioni dei maestri e fiducia nei propri mezzi. C’è il cyberpunk di William Gibson e Ridley Scott, c’è la fantascienza sporca e lontana di Star Wars, c’è addirittura un’inquadratura ripresa pari pari da Metropolis, il capolavoro di Fritz Lang datato 1927. Watanabe e soci hanno saputo realizzare un world bulding che è credibile e tangibile, un universo narrativo e scenografico che non fa soltanto da sfondo alle situazioni dei personaggi ma vive accanto a loro. C’è retaggio culturale e c’è istanza estetica in ogni inquadratura di Cowboy Bebop, c’è una regia che non cerca l’inutile spettacolarità del movimento tipica delle serie animate giapponesi ma accompagna i personaggi, resta con loro, si concentra sul loro dramma interiore.

Un’altra caratteristica di Cowboy Bebop che mi ha portato a eleggerla come una fra le mie cose preferite della vita è la sceneggiatura. Chi, come il sottoscritto, è appassionato di narrativa noir, in Cowboy Bebop, trova sempre un porto sicuro. Ogni personaggio della serie, dai quattro protagonisti fino all’ultima delle comparse, ha un dolore recondito, una ferita che non riesce a rimarginare. Esattamente come nei vecchi film di Bogart, proprio come nei libri di Ellroy, tale e quale alla vita vera.

Ho letto delle intenzioni di Netflix di realizzare una serie live action basata sull’anime. Con il massimo rispetto possibile nei confronti del gigante dello streaming, credo che riacciuffare la magia dell’anime originale sia cosa praticamente impossibile. C’è troppa ciccia, in Cowboy Bebop, per ridurre tutto a dieci sole puntate, è troppo difficile trovare un attore protagonista che sappia essere allo stesso tempo Lupin III, Humphrey Bogart e Bruce Lee, un comprimario che sia duro, rude ma comunque affettuoso – insomma, si potrebbe prendere Terry Crews, ma mi rendo conto di star sognando. È una sfida ardua creare un mondo vivo, pur se disperato, dare ad ogni ambientazione una propria identità, un proprio vissuto.

Quant’anche la serie Netflix dovesse riuscire in un capolavoro così come in una cacata invereconda, nulla potrebbe distruggere l’immagine dell’anime, che è ormai stampata sul fondo dei miei occhi. Ci sono voluti tre tentativi, per farmi entrare Cowboy Bebop nel cuore. Non ero pronto, non potevo essere pronto, da bambino o da adolescente, a farmi carico di tutto ciò che la serie Sunrise vuole dire. Certo, ci sono le astronavi che volano, scene di mazzate molto godibili e sparatorie sparse qua e là, ma non è questo il punto focale di Cowboy Bebop. Cowboy Bebop, come il grande western all’americana ci ha insegnato, parla di redenzione. Parla della speranza di trovare un posto altro, nuovo, un luogo dove poter ricominciare a vivere. Come ci ha insegnato il grande western all’americana, molto spesso quel luogo non esiste.

You gonna carry that weight.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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