Nella pazza fattoria di David Lynch ci sono conigli, scimmie e paure ataviche!
Immaginate la scena. È il 2002, non è nemmeno passato un anno dall’uscita di Mulholland Drive. Lynch è lì, immerso nelle sue cianfrusaglie, pennelli, colori, libri, ferraglia varia (se avete visto il documentario David Lynch: The Art Life capite a cosa mi riferisco), dipinge, medita, vaga per il suo subconscio (rabbrividisco al solo pensiero di cosa ci sia là dentro), fin quando nota, attraverso lo spiraglio di una finestra, in chiaro stato di asfissia, coperta di roba e immersa nella coltre di fumo di una Marlboro senza filtro, l’enorme giardino della sua villa a Hollywood Hills.
Adesso, invece, mettetevi nei panni dei rispettabili e altolocati vicini del Lynch, il gotha del jet set a stelle e strisce che, da quelle colline, come fosse un Monte Olimpo, domina l’intrattenimento mondiale, costretto a sopportare questo palco teatrale fai-da-te a cielo aperto. Rumore incessante di fulmini, pioggia e vento, voci demoniache, luci intermittenti, grida disumane e risate preregistrate, il tutto ovviamente girato di notte, per controllare al meglio l’illuminazione e i meravigliosi giochi d’ombre di Rabbits. Una scena da Ghostbusters, praticamente, con l’ego smisurato del regista che si manifesta in tutta la sua delirante potenza, per tormentare e inquinare i sogni del quartiere. E chissenefrega dei buoni rapporti di vicinato, in nome dell’arte e di un Lynch che fa film per sé stesso e per chi vuole perdersi nei recessi della sua psiche, pubblicando tutto sul suo sito internet in 42 minuti, divisi in 7 comodi micro episodi. Se l’idea, la realizzazione e un’immagine pescata a caso su Google possono anche far sorridere, assorbire e subire Rabbits in tutta la sua durata è un’esperienza di profondissima inquietudine. Una stanza riempita dalle paure dello spettatore e dalle bassissime note elettroniche di Badalamenti, un crescendo strozzato, continuo, come fosse il rumore bianco di un’altro piano esistenziale.
Inquadratura fissa, immobile, che non dà mai tregua ai suoi tre abitanti, ripresi da lontano, talmente piccoli da trasmettere l’idea di stare osservando veri conigli antropomorfi, più che umani travestiti da conigli (sembra banale ma fa tutta la differenza del mondo). Spiazzante. Come il modo in cui il trio conversa, frasi mai casuali, che parlano di orribili misteri e verità sepolte, apparentemente prive di un filo logico, monocorde e senza emozioni, come fossero lampi di lucidità nella nebbia di uno stato catatonico, alienato, sconnesso. Incomunicabilità, prima intima e poi metanarrativa, col pubblico che applaude e ride nei momenti meno opportuni - oddio, non esistono proprio momenti opportuni, qui-, un grosso “non ci state capendo un cazzo!” a chi vede Lynch come un vecchietto bizzarro che ha perso qualche venerdì di troppo. È tutto un gioco di dissonanze, visive e sonore, che danno spessore a così tanti strati interpretativi che ci si potrebbero perdere giorni interi sopra. È però soprattutto con lo strato superficiale che il corto sconvolge e apre in due il cervello, permettendo poi ai simboli e alle suggestioni di banchettarci dentro, come impiegati agli happy hour milanesi. La dimensione dell’opera è chiaramente (avverbio azzardato, parlando di un cinema di questo tipo) ultraterrena, una Loggia Nera in cui ogni cosa, dall’arredamento al concetto di tempo, risponde a diverse regole e utilizzi rispetto alle nostre abitudini. Un limbo, una gabbia per anime tormentate, conigli in cattività che ricordano qualcosa dalla loro controparte umana (“Were you blonde, Suzie?”), probabilmente qualcosa di terribile.
Cold. Siren. Dark. Smiling Teeth. Moving Wing, fingers. Smoke. Oil. Heat. Mirror. Smear of blood. Eye opened. Darkness. All wet. But in bed. Thorn. Bug in bed, crawling. Over? Moose.
Un omicidio, un tradimento, non è così importante saperlo, è lo spettatore a versare sui silenzi le sue paure. Chi bussa alla porta? Chi è al telefono? Situazioni quotidiane caricate di angoscia a pallettoni, incombenti come le ombre degli stessi protagonisti, imponenti, proiettate sulla parete che fa da sfondo. Il non visto e il non detto sono i veri protagonisti, mai svelati, mai illuminati, se non da luci rosso sangue che immergono la stanza in una tonalità mortale, preannunciando il manifestarsi di un’entità demoniaca, maligna, che ringhia in una lingua sconosciuta eppur ancestrale, quella del tormento. Un dramma familiare vestito da horror surreale, perturbante e conturbante, sostanza cinematografica che il corpo assorbe ma non smaltisce, tossica, che resta dentro come il catrame delle sigarette. Come se David Lynch, dopo il successo del 2001, si fosse dato alla distillazione artigianale di cinema minimalista, tornando alla sperimentazione più assoluta, dopo un periodo di assestamento tematico ed estetico, con Strade perdute e Mulholland Drive (inframezzati da Una storia vera), regredendo all’anarchia artistica di Eraserhead e mescolandola alla sua parallela attività di pittore (ed è una considerazione del tutto personale, che Rabbits mi porti alla mente Magritte, se ridotto a una singola immagine). Un percorso di quattro anni, disseminato di cortometraggi che troveranno poi un posto nell’imponente esplosione creativa e allucinante di Inland Empire, 2006, meraviglioso flop di un Lynch senza freni inibitori, prodotto pressoché da indipendente col contributo di Studio Canal.
Opera che a tutti gli effetti chiude i conti rimasti in sospeso tra l’autore e il cinema, inteso come sala e come industria, “l’ultimo episodio della seconda stagione di Twin Peaks” della sua carriera cinematografia, ritirandosi poi nell’amata città che avvolse Laura Palmer in un telo di plastica. Undici anni di quasi silenzio (dedicandosi più che altro a scrivere, dipingere e suonare), per poi tornare nel 2017 con il suo capolavoro assoluto, la terza stagione culto della serie culto per eccellenza, e con qualcosa di più piccolo ma estremamente rilevante. What Did Jack Do? (disponibile da un mesetto su Netflix), cortometraggio di diciassette minuti che sembra effettivamente un sogno di Gordon Cole ambientato nello spazio onirico, subconscio, di Eraserhead. Che già descritto così è una roba meravigliosa. Diciassette minuti di campi e controcampi in cui Lynch torchia una scimmietta (Marcel di Friends!), Jack, appunto, reo secondo il detective di aver ammazzato l’amante della sua bella, una dolce gallina di nome Toototabon per cui prova un amore ossessivo, disperato, accecato dalla gelosia.
They say real love is like a banana. Sweet with a golden hue.
Qui l’orrore lascia spazio al noir puro, ovviamente declinato all’assurdo, in cui la cosa più inquietante è l’ambientazione, una caffetteria che sembra ricavata da vecchi uffici fatiscenti, stonando completamente col concetto architettonico di tavola calda, avvolta in un bianco e nero elegantissimo, d’annata. Ma nonostante l’ovvia patina di bizzarria, What Did Jack Do? è come la scena finale di un thriller tesissimo, le ultime pagine di un romanzo di Chandler o Ellroy, senza però tutto quello che viene prima del confronto detective-colpevole, reso superfluo da un botta e risposta completamente stralunato e serratissimo, che crea tutto il contesto necessario senza bisogno di mostrarlo. E mettendoci dentro pure l’intermezzo musicale, grande classico del suo cinema. Maestria pura.
Oltretutto, Twin Peaks a parte, una serie stile Monk con David Lynch come protagonista sarebbe qualcosa di così esilarante e totalizzante da non aver più bisogno di guardare film o serial per tutta la vita. La figura dell’animale sembra quindi ricondurre al segreto, al rimorso capace di deumanizzare chi lo porta, come fosse una maledizione che mostra allo spettatore la vera natura dell’uomo - mi è appena venuto in mente un possibile adattamento de La fattoria degli animali curato da Lynch – un modo perfetto per adattare la poetica del cineasta (che ha sempre utilizzato la trasfigurazione per raccontare la follia dei suoi personaggi) al formato del cortometraggio. Un po’ come i gufi, che notoriamente non sono quello che sembrano, queste piccole perle del regista di Missoula sono da considerare parte integrante della sua visione, non divertissement fini a sé stessi ma pensieri fugaci, lampi immateriali che prendono forma davanti alla cinepresa per esaltare ancora una volta il mistero, quello reale, buio, senza soluzione.
Che poi, oh, se proprio vogliamo dirlo, anche senza volerci trovare un senso a tutti i costi, questa è roba purissima, da spararsi direttamente nel cervello, unica e inimitabile, sospesa tra lucidità e follia. C’è da augurarsi che quest’uomo viva altri cent’anni almeno.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.