Il maledetto United e la beatificazione del calcio di provincia
Io che sono nato nel nel ’91 praticamente già interista, vivendo poi nel mito di Ronaldo (l’unico) fino a perdere l’innocenza il cinque maggio del 2001, guardo spesso al calcio di una volta con quella nostalgia profonda, straziante, irrazionale che si prova verso le cose mai vissute.
Mi capita soprattutto col pallone, inteso come gioco del; quella voglia di viverlo al fianco di tutte le generazioni che gli sono vorticate attorno nei decenni, un po’ come il tizio di Midnight in Paris. Forse è colpa è del calcio asettico di oggi, senza pubblico, mondato da comportamenti talvolta indegni, sì, ma anche dalla passione; con i cuore che ormai batte regolarmente anche la mattina del derby, come se fosse una giornata qualsiasi. Anestetizzato in attesa di ritornare cosciente.
In ogni religione, del resto, capitano i momenti di sconforto, in questo caso mettendo in dubbio il senso di quei novanta minuti spesi davanti a uno schermo quasi totalmente verde; così verde da fare quasi male agli occhi. E laddove il praticante si rifugia nella Bibbia alla ricerca di un segno, io mi lascio cullare dal calcio d’annata; passando da YouTube a Wikipedia, di collegamento in collegamento, di scheda in scheda. E non c’è niente da fare, come un bimbo che sceglie la sua fiaba preferita, quella da farsi leggere nelle notti di tempesta, fredde, buie, ventose, col domani su un altro giorno di lotta, io torno sempre alla carriera da allenatore di Brian Clough, scoperta andando a ritroso da quelle due targhette nell’albo d’oro della Coppa dei Campioni, saldate in corrispondenza agli anni ’79 e ’80: Nottingham Forest.
È come giocare a una versione “for dummies” di trova l’intruso; troppo fuori posto, lì, in mezzo a squadre così nobili, ricche e rappresentative: Real Madrid, Milan, Barcellona, Bayern Monaco, Liverpool, Ajax. Squadre la cui gloria non ha mai cessato di brillare e, in mezzo alle quali, la doppia impresa del Forest diventa ancora più eroica, al punto da sancire la fine di un’era; uno spartiacque nel modo di vivere e godere il calcio due anni prima dell’avvento del messia Diego Armando Maradona.
Impresa covata nel fango di provincia di campi dove l’erba è un lusso, dove il calcio è quell’ora e mezza tra una dura giornata di lavoro e qualche altra birra, tempo sufficiente a dare rilevanza nazionale e, perché no, internazionale anche una cittadina nel mezzo delle East Midlands. Derby, Derby County Football Club, un ariete stilizzato su sfondo bianco, 1968. Al Baseball Ground arriva il Leeds United, campione d’Inghilterra, rockstar del calcio, costretto a scendere nel purgatorio della provincia, giù fino in fondo alla seconda divisione, in quella grande mischia che è l’F.A. Cup. Una festa, una vetrina importantissima per i “rams”, nonostante il risultato già scritto. Lo sanno sia Clough sia Revie, storico manager dei “peacocks”, la scintilla che scatena il Big Bang della Storia è un'altra, fuori dal campo, o meglio, una scintilla che non scatta. Come il più snob dei reali inglesi, “quel-cazzo-di-Revie” non degna né di una parola né di uno sguardo il collega, ignorandone la stima, l’entusiasmo. La delusione è il più fertile terreno per far germogliare l’ossessione, una spinta al miglioramento e alla rivalsa che non si ferma mai, neanche a obiettivo raggiunto, come un cancro che consuma il suo ospite.
Il maledetto United - inteso come film del 2009 diretto da Tom Hooper - riesce a raccontare divinamente questo stato d’animo sia grazie alla performance sontuosa di Michael Sheen nei panni del protagonista, sia sfalsando i piani temporali, passando dalla gioia alla disperazione, dai successi ai fallimenti in ordine sparso, ma soprattutto mettendo l’accento sul rapporto di amicizia fraterna che lega Brian Clough al suo storico secondo, Peter Taylor (Timothy Spall), dalla composizione allo sgretolamento come una love story d’altri tempi.
È come se quell’episodio, quello sgarbo, avesse caricato Clough di un’energia in grado di spararlo ben oltre il punto di atterraggio, un Apollo alla deriva nello spazio dopo aver mancato quella luna indicata non dal dito, ma dalla lucidità. L’onnipotenza di chi, dopo aver rincorso e trovato la promozione per poi andare a stanare il nemico lassù, in cima alla Premier, nel primo posto dorato del campione si mette in testa di essere il padrone del club, dimenticando quanto per il presidente l’allenatore sia sempre la prima testa da far saltare. È all’incrocio tra il tunnel d’ingresso al campo e il corridoio che porta agli spogliatoi che Clough conquista e perde tutto, non a caso sempre contro il Leeds, maledetto dal destino, in due scene che Hooper gira in modo magistrale.
Il secondo incontro in Premier, dopo lo 0-5 del girone d’andata, decisivo in un campionato vissuto testa a testa come una corsa di cavalli. La tensione consuma l’allenatore, che decide di seguire la partita dagli spogliatoi vivendo il racconto attraverso le silhouette degli spettatori offuscate dalle spesse finestre della stanza. Ascoltandone i cori, le imprecazioni, le esultanze che arrivano attutite, lontane, in un’altra dimensione. Il tempo scorre, le unghie da mangiare sono finite, il risultato è solo un’ipotesi. Clough apre la porta, esce, guarda il corridoio e vede Taylor, scuro in volto; poi un sorriso dai denti gialli e storti si apre sulla bocca del suo vice: “DUE A UNO!”. Una consacrazione, la consapevolezza di aver azzerato il gap tra i campioni e una neopromossa, in un calcio che al 99% si viveva coi nervi tirati più che con le qualità tecniche e atletiche.
La Storia di compie, i ruoli di detentore del titolo e inseguitore si invertono, come in una caccia alla volpe coi fucili in mano agli animali, e l’anno dopo la partita cade prima della semifinale di Coppa dei Campioni con la Juventus. L’orgoglio chiude il buon senso in cantina, insieme alle le scelte tattiche, alla logica, arrivando allo scontro con Sam Longson, storico presidente del club, che prima cerca di farlo ragionare con le buone, poi con un ultimatum, sempre in quel tunnel, all’oscuro da occhi e orecchie indiscrete.
Insomma niente da fare, giocano i titolari e il County cade nella trappola di una partita preparata da Revie come fosse un agguato, una spedizione punitiva, carneficina sotto una pioggia torrenziale che lava via il sangue, in un rettangolo di fango che diventa quasi metaforico.
La fine del sogno europeo tra gli infortuni e le polemiche (3-1 a Torino commentato con un “I will not talk to any cheating bastards!” rivolto ad un’amplia platea che comprendeva bianconeri, stampa italiana e italiani tutti, 0-0 al ritorno, con la Juve che perderà poi la coppa in finale con l’Ajax), la fine di Brian Clough come manager del Derby. Perché non importa quanti trofei tu abbia portato in bacheca: la presunzione si paga cara, e chi ti paga è sempre pronto a stringere la mano che tiene, ben salda, attorno alle tue palle dal momento della firma. Sarebbe l’occasione giusta per rilassarsi in un caldo bagno di umiltà, lavandosi l’ossessione di dosso, ricominciando tra la salsedine e i pensionati di Brighton, una britannica Loano, stipendio da prima divisione nella tranquillità della terza. Poi arriva la chiamata che non ti aspetti, un emissario tutto imbellettato e sudato sulla spiaggia di Maiorca, durante la vacanza prima di cominciare il nuovo lavoro, la fatica che gronda dalla fronte. Revie saluta il Leeds dopo tredici anni di successi per allenare la nazionale inglese; la prima scelta è Brian Clough, che decide di mandare al diavolo il contratto appena firmato con il Brighton & Hove Albion e distruggere la profondissima amicizia con Taylor; non per l’ambizione, ma per mettere in scena l’ultimo atto della sua personale e immaginaria vendetta, confondendo vita e teatro.
L’obiettivo di cambiare mentalità a un gruppo che, secondo lui, si è macchiato di anti-sportività per anni, picchiando come fabbri invece che mettere in campo il bel calcio. Tra dichiarazioni roboanti e tentate umiliazioni verbali verso giocatori glaciali e anarchici, battute e sarcasmo, con la bocca impegnata più a sparare frecciate al rivale che ad urlare indicazioni tattiche. Pura esaltazione di sé stesso in un paragone che non interessa a nessuno, se non a lui, un monologo inascoltato lungo quarantaquattro disgraziati giorni passati sulla panchina del Maledetto United.
Quarantaquattro giorni che Hooper diluisce per l’ora e mezza che dura la pellicola, scegliendo piccole sequenze: dall’incontro con la dirigenza, letteralmente schiacciata dall’ego dell’allenatore, al primo delirante discorso alla squadra fino alla prima sconfitta (e non certo l’unica). Scene eloquenti, eleganti e tese, dove dietro un ghigno si nasconde tutta l’angoscia del fallimento che sta per franargli addosso; la stessa smorfia di un condannato a morte. Sequenze che lo ritraggono sempre solo, escluso dal progetto fin dall’arrivo, quando in macchina coi due figli tira dritto davanti all’Ellan Road, prendendo tempo con un’intervista pur di rimandare, respinto da un ambiente che lui per primo ha sempre detestato, come Sarri alla Juve o Lippi all’Inter, solo che qui quello appeso e preso a calci in culo è il mister. Un fallimento quasi liberatorio, e allora alla fine che sia benedetto, ‘sto United, se non ha portato all’oblio ma alla rinascita. Il ritorno in ginocchio da T(e)aylor e poi la leggenda, quello status che nel calcio si ottiene solo cambiandolo, condizionando la mentalità e l’atteggiamento di chi verrà dopo. Il prototipo dell’allenatore moderno (di più, contemporaneo, e il paragone con Mourinho è scontato), arrogante, protagonista, sempre polemico a prescindere, tagliente e sfacciato, atteggiamento consentito solo portando a casa i risultati, spartiacque tra un semplice buffone di corte e un grande tecnico, uno che ha qualcosa da dare al suo mestiere. Forse è per questa storia che tendo a idolatrare più gli allenatori che i fenomeni, ricordando le parole più dei goal, soprattutto se quelle parole escono dalla bocca di chi il calcio sa raccontarlo di pancia, senza atteggiamenti di plastica, ignavi, equilibrati.
Il fatto che io stia scrivendo queste ultime righe quando al di là della Manica si sta giocando Nottingham Forest – Derby County, accesissimo derby delle East Midlands con in palio il simbolico Brian Clough Trophy è semplicemente giusto, naturale, in attesa del giorno che vedrà il grande ritorno del calcio di provincia come è successo a Leicester; senza però andare troppo oltre la prima fiammata, come forse succederà all’Atalanta. Imprese che tendono al divino, talmente mistiche da far cambiare fede, anche solo per novanta minuti.
Questo articolo fa parte della Cover Story pallonara, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.