Outcazzari

Dyad: è il tunnel a ruotare o siamo noi a ruotarci dentro?

Metti caso a Toronto, Ontario, Canada. Metti caso il nome dello studio indipendente sia RSBLSB, right square bracket] [left square bracket. Metti anche sia stato fondato nel 2005 da un certo Shawn McGrath, e che veda al suo interno un musicista tipo David Kanaga (autore della colonna sonora di Proteus, qui la nostra anteprima, qui la nostra intervista). Metti infine che questa serie d’istrioniche velleità venga depositata in esclusiva per una decina d’euro sul Network di PlayStation 3. Alla fine, l’unica cosa che possiamo fare è trasformarci in una particella di luce pulsante all’interno di un tunnel ruotabile (o siamo noi che vi ruotiamo dentro?), mentre ci vengono addosso altre particelle da colpire, sfiorare o evitare. Di base, questa è la meccanica di Dyad. http://www.youtube.com/watch?v=wqgNPhdaci4

A differenza però di quanto accadeva nel seminale Tempest, il nostro bel tunnel non è diviso in segmenti. In Dyad bisogna ruotare (con l’analogico o la croce direzionale, ma meglio il primo) in modo da posizionarsi esattamente sulla direzione della particella interessata, la quale viene contornata da un cerchio fluorescente quando esattamente inquadrata. Quello è il momento in cui è possibile schiacciare il fatidico tasto X per “agganciare” la nostra beneamata.

I livelli di Dyad sono divisi in Game, i quali, soddisfatti certi requisiti valutativi (una, due o tre stelle), sbloccano a loro volta due sottolivelli: uno chiamato Trofeo, l’altro Remix. Se attraverso i Remix la pratica di ripercorrere un livello è strettamente connessa al piacere personale di cambiargli alcuni parametri estetici e/o di gameplay (velocità, colori, audio, ecc… ), i trofei rappresentano invece delle Sfide sibilline, come ad esempio agganciare e colpire un tot di coppie di particelle dello stesso colore prima di finire di percorrere il tunnel, oppure tagliare il traguardo mantenendosi sotto un determinato tempo/soglia, possibile grazie all’incremento di speed per ogni coppia andata a buon segno.

Inoltre, un’altra fra le sfide intriganti consiste nell’agganciare e colpire una coppia di particelle dello stesso suono: in questo caso le particelle hanno tutte lo stesso colore, ma per distinguerle le une dalle altre dovremo ascoltarne appunto il loro specifico suono, avvertibile per qualche secondo quando ne agganciamo una. Avanzando di game in game, spunta poi la possibilità di utilizzare il tasto quadrato del nostro DualShock3, attivabile passando accanto l’aura di certe particelle atte a caricare due barre energetiche che, raggiunto l’overflow, ci permettono di “trafiggere i nemici” attraverso un letale boost particellicida.

Ma parlare delle meccaniche di Dyad equivale a togliere al giocatore il gusto della continua scoperta. Dyad è in primis uno splendore aurale di musica e ritmo, un tripudio di colori, forme e sinestesie, capaci di compromettere un linguaggio acustico-visivo. Si tratta di una scenografia in rotazione continua, che scombussola la capacità cognitiva di distinguere il suono o il colore di una particella, in modo da mantenere la soglia dell’attenzione mentale a livelli sempre attivi e interessati. Ma è proprio qui, su questa fatidica soglia dell’attenzione, che viene giocata la vera partita con Dyad. Non solo perché, ad esempio, premendo il tasto X senza aver inquadrato bene una particella, il sistema conteggia questi errori di valutazione creando penalità o game over anticipati. Il fattaccio di Dyad riguarda tutt’altra cosa.

I designer hanno volutamente, programmaticamente, bastardamente studiato a tavolino qualcosa di subdolo: esplorare lo stato mentale dell’utente per condurlo oltre un certo livello di appercezione cognitiva, stimolando, attraverso la fluidità sensoriale, quel particolare stato di contemplazione ipnotica che trascende la coscienza d’avere un joypad fra le mani. Giocando Dyad si scopre, ad un certo punto e naturalmente, che la miglior cosa da fare non è più controllare, valutare o posizionarsi al perfetto millimetro con l’intento di raggiungere un perfect score, bensì lasciarsi andare a sperimentare una delle prerogative d’approccio esistenziali alla vita in genere, quando la si guarda con occhio zen: farla fluire affidandosi all’intuito, all’ottimismo, alla fiducia che i nostri obiettivi, quelli che percorrendo ogni giorno la nostra strada-vita agganciamo, siano il colore, il suono, la forma e la velocità giusti ed esatti, nella certezza che “alla fine del tunnel” - o alla fine del tempo di gioco - ogni cosa sarà magicamente andata al proprio posto. In altri termini, Dyad può essere visto come una metafora che insegna a trascendere l’ossessione dell’autocontrollo cognitivo e meccanico, al fine di raggiungere un successo insperato.

Detto questo, sarebbe un errore pensare che l’abilità dell’utente di Dyad sia solo quella di compiere un salto della fede senza divertirsi nell’interagire con il gioco com’è solito fare. Il miglior modo per giocare Dyad è quello di lasciarsi quanto più possibile andare a condizioni partecipative di tipo ipnotico ed estatico, accettando che la meta-riflessione che si fa sul funzionamento della nostra mente possa poi indurci a pensarla quale filtro fluido, depersonalizzante, in grado di attivare meccanismi non totalmente compresi nelle dinamiche di calcolo strategiche di videogiocatori razionali. In pratica, qui si va oltre il Master Control Program di Tron, oltre il Matrix, oltre i vari Rez, Lumines, Child of Eden, Tempest, wipEout e tutti gli altri giochi votati all’alterazione di certi stati aurali. Dyad richiede uno stato di introversione e perdita del sé in una realtà-altra assolutamente da sperimentare. Se ancora non fosse chiaro, con Dyad si sfiora il magico.

A scalfire questa perfezione d’intenti ci pensano due elementi periferici che per dovere di cronaca vanno riportati. Il primo è la localizzazione italiana, la quale presenta sviste o refusi inspiegabili, con parole come “ottenre” al posto di “ottenere” (punteggi) o “miglioti” al posto di migliori. Trattasi di roba che compare a caratteri cubitali un livello sì e uno no, dunque, piuttosto imbarazzante. La seconda: neanche a dirlo, visto che maneggia roba veloce, fluorescente e sonora che s’impiastriccia con la nostra mente, Dyad è tanto bello quanto pericoloso. La condizione ipnotico-sensoriale in cui costringe l’utente equivale all’essere chiusi dentro un mantra mentale che batte ossessivo sull’ossessione di sé. In altri termini, gli iniziali avvertimenti di gioco nello sconsigliare Dyad a chi soffre, ha sofferto o pensa di soffrire di crisi epilettiche non sono qui ridondanti quisquilie precauzionali alla Nintendo, ma diventano codice, legge e norma sacrosanti, assolutamente da non ignorare.

Qui c’è davvero di che perdere la testa, ragazzi.

Ho scaricato Dyad dal Playstation Network, ma credo d’aver preso davvero a giocarci solo dopo mezz’ora di gioco, quando una voce nella mia testa ha esclamato “Ora non abbiamo più bisogno di te da queste parti”. Così ho spento tutto e mollato il pad, eppure ho ancora la sensazione di qualcuno dentro me che sta giocando…

Voto: 9

La bottega di LeChuck #18 - Il manicomio degli orrori e i sogni nippo-iraniani

An evening with Dante