Farsi un mazzo tanto: Thronebreaker
The Witcher III: Wild Hunt è uno fra i prodotti culturali mainstream più importanti dell’epoca post-Game of Thrones, quel pazzesco momento storico durante il quale legioni di snob nutriti a pregiudizi si sono accorte che a) il fantasy può essere interessante anche se non te ne frega nulla della magia e b) anche nel fantasy si scopa un sacco. Ispirato a romanzi che precedono quelli di Martin ma che non hanno neanche lontanamente ottenuto lo stesso successo (il fatto di essere scritti in polacco ha sicuramente contribuito), il Gioco di Geralt, all’uscita, spazzò via la concorrenza e tutti i Dragon Age di questo mondo, per affermarsi come l’Esperienza Dark Fantasy per eccellenza, caratterizzata da tutti quegli elementi che hanno reso grande la serie HBO: sangue, violenza, budella, creature deformi, gente che scopa, gente che scopa su unicorni, tette e culi, tradimenti, politica e, ovviamente, carte collezionabili.
C’è questa cosa stranissima per cui una fetta non indifferente di fan di The Witcher lo sono diventati grazie al Gwent, una sorta di Magic ipersemplificato e più simile in realtà a un gioco di carte classico (magari un qualche solitario) che a un CCG. Dico che è una cosa stranissima perché, al di là dell’allure dell’ossessione collezionistica dell’avere tutte le carte in circolazione, la versione di Gwent contenuta in The Witcher 3 è un po’ una ciofeca, basata su regole semplici e ripetitive e nella quale più sono grosse le carte che si portano nel mazzo, più si vince facilmente. Non importa: la semplice inclusione di carte collezionabili in un gioco nel quale si fa tutt’altro ha dato la stura a una miriade di prodotti che integrano la meccanica della costruzione del mazzo con, boh, tutto il resto; in altre parole, se Il trono di spade ha convinto i fan del fantasy a venire allo scoperto e ne ha creati parecchi altri, The Witcher III e il suo Gwent hanno fatto lo stesso per i giocatori di Magic vecchi e nuovi. E il risultato è che siamo (finalmente!) circondati di variazioni sul tema del vecchissimo MagicTthe Gathering per PC del 1997 (che a sua volta era una versione con le carte collezionabili di boh, uno Heroes of Might and Magic a caso), dal gigantesco Slay the Spire al recentissimo e delizioso Steamworld Quest.
È solo giusto, quindi, che a un certo punto la gente di CD Projekt RED abbia deciso di riprendersi il trono e di mettere seriamente mano al Gwent, trasformandolo in qualcosa di divertente da giocare. Ed è ancora più giusto che, in parallelo al gioco di carte, creato per il multiplayer e per tutte quelle cose che rendono grandi i giochi di carte, abbiano deciso di fondere la sensibilità politica e il gusto per il fantasy cupo fatto di gente con la faccia di merda che dice bugie e poi ti pugnala alle spalle con la meccanica di costruzione del mazzo di Magic. Cioè, non è normalissimo, in realtà, ma si chiama Thronebreaker: The Witcher Tales e funziona.
La prima idea di Thronebreaker è la stessa che ha fatto il successo di Gwent: The Game (o come diavolo si chiama): rifacciamo il Gwent, questa volta, però, bene. Senza scendere troppo nel dettaglio, la vera novità di questa versione è che finalmente le carte fanno qualcosa, e non sono solo numeri da schierare per avercelo più grosso dell’avversario. Trasformandolo così in un gioco decisamente più attivo e coinvolgente, nel quale, come in ogni gioco simile che si rispetti, la carta con il numero più alto non è necessariamente la più utile in quel momento. Compaiono tutte quelle meccaniche classiche di un CCG che erano tristemente assenti nella prima stesura: le combo, le sinergie, i buff e i debuff, le carte da stackare, istantanei e interruzioni… tutta roba che comunque potete sperimentare in prima persona con Gwent The Card Game: The Video Game, o come diavolo si chiama.
E roba che in Thronebreaker viene doppiamente ribaltata, al punto che giocarci e finirlo non necessariamente vi renderà dei veri giocatori di Gwent. Il fatto è che Thronebreaker è un gioco single player, che ridisegna la maggior parte degli incontri non intorno a un classico scontro tra mazzi alla meglio dei tre (che funziona bene contro un altro essere umano, meno contro un computer, che difficilmente potrà bluffare o cascare nel vostro bluff, per dirne una), ma intorno alla storia che sta raccontando, e alla quale tra poco arrivo. La maggior parte dei “combattimenti” durano così un round invece che tre, e c’è sempre un twist, una variazione sul tema, una carta speciale che compare solo lì e mai più nel corso del gioco, Prima ancora che un CCG, Thronebreaker è un puzzle game mascherato – quando non manifesto: alcuni tra i migliori incontri del gioco sono presentati non come combattimento ma come enigma da risolvere, e hanno obiettivi meravigliosi tipo “bevi più birra di questo nano” o “ripulisci questo campo di battaglia dai cadaveri senza farli esplodere”.
Questo perché, si diceva, Thronebreaker è anche un’avventura molto lineare e parecchio scritta, e perfettamente in linea con il fantasy alla The Witcher – con più di un occhio a quello alla Game of Thrones. Dove il Gioco di Geralt era una storia personale, la biografia di un personaggio (due) (tre) (alcuni) sullo sfondo relativamente poco invadente di guerre e altre macrovicende, Thronebreaker è un grosso arazzo politico con al centro la regina Maeve di Rivia, la quale viene colpodistata e spodestata dal suo trono, e si ritrova così a vagare tra un regno e l’altro, nel tentativo di farsi degli alleati e riconquistare il suo reame ormai in fiamme. In altre parole, Maeve è una Daenerys Targaryen senza draghi ma con molta più garra.
Fa strano dirlo di un gioco di carte nel quale ogni avvenimento è raccontato tramite vignette statiche (con voci e tutto quanto, comunque), ma Maeve e la sua storia fanno la fortuna di Thronebreaker quanto le sue meccaniche. Questo avviene principalmente perché Maeve è un personaggio fantastico, una regina a cui il figlio traditore ha rubato il trono e che è quindi inviperita con il mondo, una donna che gronda carisma ma la cui prima reazione di fronte a qualsiasi cosa che si muova e non sia un gattino teneroso è quella di caricarla di mazzate finché non smette di respirare, poi farle domande.
E la sua incazzatura non fa che (giustamente, aggiungo io) crescere nel corso della storia, in parallelo alla crescita del suo esercito (cioè del suo mazzo), il che significa che dopo ogni sbroccata arriva la possibilità di sfogare la tensione con carte sempre più potenti e combo sempre più efficaci – almeno finché non si incontra il counter perfetto al mazzo che ci si è costruiti, e allora ci si ferma, si torna a leccarsi le ferite, si toglie qualche carta e se ne aggiunge qualcun’altra, ben sapendo che non ci si sta preparando alla rivincita contro xX_CarloGamer_Xx69 che dice di aver avuto incontri intimi con la vostra genitrice, ma contro l’ultimo di una lista di traditori che devono finire a mangiare terriccio e a diventare sushi per vermi.
Thronebreaker è un gioco che supplica di essere giocato da cima a fondo, spolpato e disossato fino all’ultimo puzzle o combattimento opzionale, perché unisce la potenza e la tendenza a dare dipendenza dei CCG a una storia ben scritta (e sì, a un certo punto compare anche Geralt, che è ovviamente OP), la cui autorialità traspare anche dai combattimenti, tutti diversi e tutti con qualcosa da insegnare su queste buffe carte, che sintetizzano un grande soldato e la sua spada della vittoria in una manciata di numerini ed effetti attivi. Il massimo dell’astrazione, al servizio di un racconto mortalmente concreto, dove la gente suda, soffre, sanguina e se le dà di santa ragione in nome della patria e della libertà. Tipo The Witcher ma con più politica, tipo Game of Thrones ma con le carte e meno scene girate di notte.
Una chicca, se amate i giochi dove l’emozione vera è rappresentata dall’aspettare tre turni per avere abbastanza segnalini su quella carta da attivare quell’abilità al massimo della sua potenza.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Il trono di spade e al fantasy lercio, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.