Flower, il giardino della mente | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Ho sempre compreso e condiviso l’idolatria che Journey ha suscitato, fin dal primo momento. Scava così in profondità da far male, un’opera audiovisiva che più di ogni altra cosa avvicina a Dio, chiunque esso sia, indipendentemente dalla densità spirituale che alberga nel giocatore. Un potere di cui dispongono solo le opere d’arte, cosa che Journey è, con buona pace di qualsiasi dibattito sull’argomento arte/videogioco. Quello che ho sempre capito meno invece, è come questo gioco sia riuscito negli anni a mettere sempre più in ombra, nella memoria collettiva, Flower.
Se Journey indaga sul rapporto tra umano e divino, Flower fa lo stesso sostituendo quest’ultimo con la natura, in un’equazione che annulla la fisicità dell’uomo per farlo volteggiare nell’aria, fuori dal suo involucro protettivo, vulnerabile e privo di peso, scoprendo un’anima a forma di petalo. Un solo tasto da premere, quel tanto che basta a trasmettere un minimo di resistenza all’aria, il resto affidato ai giroscopi del DualShock, mai utilizzati così bene, per librarci in volo con una naturalezza folle su prati spenti, dimenticati e sfocati nella coltre grigia di un’esistenza di cemento. Flower diventa una presa di coscienza, la constatazione che la vita cittadina sia un limite alle percezioni dell’uomo, una gabbia dorata che promette benessere materiale, chiedendo in cambio di rinunciare al profumo dei fiori, al calore di un sole che non sia filtrato attraverso un velo di smog, chiudendosi otto ore al giorno in un merdosissimo ufficio. La gita del weekend come l’ora d’aria di un carcerato, o di un impiegato alienato, fate voi. thatgamecompany ci costringe a ricordare, tirandoci fuori dal loop della routine, i sensi ridestati, sull’attenti, la responsabilità di un piccolo ecosistema virtuale sulle nostre spalle. La sua rinascita vissuta di fiore in fiore, ringraziandoci con note di piano per averli fatti sbocciare. Sospinti dal vento, totalmente estranei al nostro corpo.
Fa sorridere pensare che il terreno di game design su cui Flower sboccia sia praticamente una versione di Snake che non può mordersi la coda. Un serpentone di petali che vaga per il livello, sempre più lungo, quanti più fiori “mangia”, scatenando le reazioni burrascose di un mare d’erba in tempesta, così bello da poter temere solo la concorrenza delle piane di Hyrule. Perché non bisogna dimenticarsi di quanto sia genuinamente divertente, confezionato da gente che l’essenza del “gioco” la maneggia con la sapienza di un giardiniere. Un gameplay che impollina la mente e accende i neuroni, come la primavera fa con la natura, mentre la bellezza e la grazia travolgono tutto, come fossero proiezione astratta di un balletto al Bolshoi. Facendo emergere quel malessere sfuggente, il cui significato più profondo sembra inafferrabile, purificandolo e rivelando una terribile nostalgia, appesa ad asciugare al sole. È la sensazione che si prova in cima a una collina, lontani da rumori artificiali, consapevoli di essere vivi. Morfina virtuale, un palliativo in attesa di una cura che al momento si trova a una quarantena (e chissà quanti altri sbattimenti) di distanza. Tessuto sintetico, si, ma morbido e coloratissimo. Perché emozioni e ricordi devono aderire su texture e poligoni che abbiano la giusta consistenza, quella di un campo di grano a maggio, rigoglioso e delicatissimo al tatto, che, baciato dal vento, vibra di melodie sinfoniche e totalmente prive di percussioni. Archi, fiati, note di piano e accordi di chitarra acustica accarezzano il gameplay e lasciano all’ambiente spazio di cantare delicatamente, sottovoce.
Ed è proprio all’orecchio che Flower sussurra un discorso di una lucidità disarmante. Se all’inizio ci può illudere di stare intraprendendo un percorso di fuga dalla città, presto ci si rende conto di come la bussola punti verso essa, verso un ricongiungimento consapevole, armonioso e sostenibile. “Non bisogna lasciarsi dietro macerie”, sembra dire, quelle dei palazzi che deturpano il livello cittadino e che, sorprendentemente, non vengono distrutti dal nostro passaggio, bensì ristrutturati, amalgamati, perdendo così la loro tossicità. Coltivare piccole e delicate piantine sul davanzale della propria finestra per vedere sotto un’altra prospettiva quello che c’è fuori, partendo da sé stessi. I suoi significati, poi, si adattano alle pieghe psicologiche di ogni singolo giocatore, parlando di lei o lui, lasciando libero il pensiero di vagare per il level design. Elemento cardine, questo, del talento narrativo di Jenova Chen, capace di neutralizzare l’egocentrismo dai suoi lavori. Taglia unica che calza come solo un racconto per immagini può fare. Immagini poderose, vertiginose, che frame by frame muovono un immaginario che ha fatto scuola, dettando le linee artistiche di una corrente fotografica che esplode di dettagli nel micro e si fa minimale nel macro, trovandola oggi riproposta con mestiere in opere altrettanto interessanti, come Mosaic e Lost Ember.
Il bouquet di thatgamecompany è come un profumo, scatena ricordi diversi di persona in persona, evanescente pur nel suo status di videogioco celebrato e pluripremiato. È forse questa la risposta alla domanda che ponevo in avvio, il destino di tutto ciò che è troppo intimo per parlarne ad alta voce, troppo prezioso da mostrare a uno sconosciuto. Inestimabile.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.