Dark Cloud è una metafora del Brico | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Dark Cloud è uno di quei giochi che sembrano parodie della realtà. Sembra una giornata al Brico (o all’Ikea, fate voi); un perpetuo aggirarsi tra corsie procedurali che sembrano mutare l’ordine dei prodotti ad ogni giro, il terrore, l’ansia dell’ignoto, il disorientamento! I prezzi di cose inutili a cui non riusciamo a resistere, come colpi critici al portafoglio, la fuga a rotta di collo, fuori dai coglioni sapendo che sarà inevitabile ritornare nel dungeon, ma solo dopo aver costruito qualcosa a cui mancherà quella vite dispersa tra le pieghe dello spazio-tempo, o nel bagagliaio, quell’unità che manca per mettere in moto l’immensa macchina del crafting. Persa per sempre, andata. E l’opera prima di Level-5 è un po’ così, il senso della vita che è proprio della filosofia roguelike, impreziosito col gusto per la (ri)costruzione del mondo a nostra immagine e somiglianza, quella libidine di vedere interi villaggi tornare alla vita, alla forma materiale, come ricompensa per i nostri sforzi tra i mille cunicoli del level design procedurale.
Oltretutto, magari mi sbaglio ma questo modus operandi dell’action RPG roguelike era ben lontano dall’essere una consuetudine su console, nel 2000, anticipando di parecchi anni un sapore che ormai è diventato parte di parecchia roba contemporanea (un po’ come lo zenzero in cucina) e che invece i PCisti conoscono bene da secoli. Io, comunque, all’epoca ne sapevo pochissimo: avevo dieci anni, la mia PlayStation 2 profumava ancora di plasticaccia cinese nuova e vedere che i piani dei labirinti mutavano di volta in volta era una roba abbastanza frizzante da solleticarmi il palato partita dopo partita. Anche l’atmosfera in sé era incredibilmente suggestiva, un mondo pacifico tormentato da ‘sto Genio Oscuro che ogni tanto usciva fuori e dilagava come una pestilenza alla Ganon, facendo svanire nel nulla intere popolazioni e tutto quello che avevano costruito. PUF, senza traccia, andati. Però capita anche di far sparire il villaggio sbagliato, quello dove abita un eroe predestinato alla Link, che attraverso la tragedia risveglia il suo potere, antidoto alle malvagità del mondo e utilissima dote nel fai-da-te. Perché la cosa più figa in assoluto di Dark Cloud era quest’abilità del nostro alter ego di recuperare case, monumenti, oggetti e soprattutto persone nei dungeon per riportarli alla vita, ristrutturando il mondo come fosse il nostro diorama (anzi, Georama!), ripensando da zero l’urbanistica delle deliziose cittadine.
È una roba che mi ha sempre mandato fuori di testa, quella di veder sbocciare un habitat virtuale morto, secco, vuoto, emozione che ritrovai poi fortissima in Okami, per dirne uno. E come lo si fa nell’opera di Level-5 è qualcosa che dà una sensazione di progressione straordinaria, l’idea di stare facendo qualcosa di buono e giusto. Si osserva il nostro villaggio rifiorire, si esulta nel rivedere persone sconosciute ma di cui sentivamo inspiegabilmente la mancanza, diventando parte integrante del gameplay, che sia con una chiacchierata anti-stress o chiedendoci qualche favore, affidandoci missioni secondarie e creando una rete di servizi che fanno di un paesello, beh, un bel paesello in cui vivere. E piano piano si ricrea quell’atmosfera di provincia, quella in cui ci si conosce tutti e non ci si riesce a fare i cazzi propri, perché le voci corrono, “Guarda l’eroe!”, “Oh, eroe, mi sposteresti la staccionata una casella più in là?”, “Uè alura pirla, cume la va?”, ma che tutto sommato rasserena e fa sentire a casa, una volta tornati dai putrescenti e fatiscenti labirinti dalle texture copia-incolla. Un vero e proprio lavoro, sporco, faticoso, pericoloso, col rischio di crepare di fame e sete (e fa molto escursione il fatto di doversi mettere pane, acqua e medicine negli slot prima di partire) ma capace di ripagare con una moneta proporzionata, loot per cui vale sempre la pena di rischiare, che oltre ai già citati tesori umani e architettonici, comprendono le preziosissime armi, le quali, a differenza dei protagonisti, salgono di livello, potendole poi potenziare e fondere tra loro per creare QUELLA DI DIO. Certo, il combat system non è niente di trascendentale, solo funzionale e simpatico. Il gusto è più statistico, quello di vedere il pulsante che schiacciamo ripetutamente infliggere sempre più danni, godendosi nel frattempo animazioni stranamente fluide per un gioco dell’epoca.
Una routine cui Level-5 ha dato un twist, introducendo altri cinque personaggi oltre al protagonista, tre abili nel corpo a corpo e tre capaci di usare armi a distanza, in modo da limare una certa ripetitività fisiologica e far tirare la volata al giocatore fino al traguardo, assumendo un cocktail di meccaniche che non permettono all’organismo di saturarsi. Oltretutto, stiamo parlando di dungeon crawling e city building, robe che già da sole trascinano nel gorgo della virtua-tossicodipendenza anche il giocatore che tendenzialmente “sceglie la vita”. C’è poco da dire, Dark Cloud è un vero e proprio classico, che i suoi creatori hanno poi reiterato e perfezionato per tutto il periodo PlayStation 2, prima col seguito, Dark Chronicle, ancora più bello, profondo, grande e tutto in cel-shading, e poi con Rogue Galaxy, più azione e senza costruzioni da tirar su, tutti disponibili anche su PlayStation 4 e degni di un bel Recuperone® da quarantena, soprattutto se vi mancano le domeniche al Brico (non credo); lasciatevi servire dal Calzati. È questo primo episodio, però, che è passato alla storia come “Lo Zelda di Sony”, quelle definizioni un po’ a cazzo di cane che si sparavano quando tra le varie console c’erano ben più muri di oggi, uscendo spesso dalla bocca di chi aveva un monolito nero in casa, ancora in soggezione verso Nintendo e le sue prestigiose esclusive. La verità è che oltre a certe vibrazioni, ispirazioni, affinità caratteriali e orecchie a punta, Dark Cloud ha sempre avuto un’identità tutta sua, che forse spicca oggi più di allora, nonostante una tecnica acerbissima, cosa che smetterete di notare dopo dieci minuti.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent'anni di PlayStation 2, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.