Outcast FOTY 2021
Ed eccoci al secondo giorno di OTY, chiaramente dedicato ai FOTY. Ieri, infatti, vi abbiamo parlato delle serie che assolutamente ci hanno più fatto provare piacere fisico nel 2020, oggi si passa ai film.
Buona lettura e buon 2021!
Andrea Maderna
Io sono un matto ossessionato che tiene traccia di tutto quello che consuma e aggiorna mano a mano le classifichine di fine anno, aggiungendo un pezzetto alla volta. Il rovescio della medaglia è che non sono ossessivo nell'ordinarle, tengo per buoni voti e piazzamenti assegnati sul momento, non mi metto a curarle in maniera ragionata alla fine dell'anno. Com'è andata, è andata. Quest'anno, però, è successa una roba un po' particolare, nel senso che una Top 5 cristallizzata nei primi sei mesi è stata presa a calci in culo sul rush finale, da cinque film che se la sono magnata. Prima, a settembre, è atterrato in vetta Dune. Poi, a ottobre, Titane l'ha sorpassato tamponandolo e scaraventandolo fuori strada. A novembre, La persona peggiore del mondo l'ha superato con grande eleganza e sembrava aver parcheggiato inevitabilmente là in cima. Qualche settimana dopo, se è fatto fregare il posto da La scelta di Anne – L'événement, che s'è proprio inserito sorpassando sul cordolo e sventolando il dito medio. Quindi a dicembre, West Side Story, che in un altro anno sarebbe stato facilmente il mio film preferito, ha tirato una sportellata a dune spingendolo ai margini della Top 5. Infine, a gennaio ho recuperato Il collezionista di carte, che ha tagliato le gomme di Denis Villeneuve e ha sparato Arrakis fuori dai maroni. Dovremmo registrare l'Outcast Popcorn dedicato alle nostre Top 5 fra una settimana e non escludo che ci siano ulteriori smottamenti, perché vorrei recuperare Benedetta e Petite maman e me li sento caldissimi. E non è che tra i film rimasti sotto a Dune manchi la bella roba. Insomma, quello che sto dicendo è che questo 2021 cinematografico m'è piaciuto un sacco. Ma qui devo puntare il dito e, insomma, lo punto come detto su La scelta di Anne – L'événement, che si tuffa negli anni Settanta per parlare di aborto, scelte personali, oppressione sociale e cinquanta sfumature di sofferenza con una freschezza, una contemporaneità e una forza espressiva fuori dal mondo. Cento minuti a star male come se stessi guardando in loop il prologo di Midsommar. Che bellezza (?).
Francesco Tanzillo
Per una banale questione matematica, ogni volta in cui esce un film di 007, quello dovrebbe essere il miglior film dell’anno. E questo al di là dei miei noti apprezzamenti per la saga e per il personaggio, che fanno di me un dinosauro misogino e sessista, una reliquia della Guerra Fredda il cui puerile fascino è nel vostro caso sprecato. Chiarito questo primo punto, che va ad alterare tutto il possibile buonsenso della questione, vale la pena di entrare nel caso specifico del perché questa volta lo dico meno a malincuore. Negli ultimi sei mesi del 2021, è arrivata al cinema la mole di film che non è uscita nell'anno e mezzo precedente. In questo marasma cosmico nel quale i film inciampano tra di loro, ostacolandosi, ho voluto premiare No Time to Die, vale a dire quello che mi ha fatto vacillare emotivamente, quello che mi ha coscientemente fatto accantonare la sproporzione di difetti in virtù dell’assoluto godimento della pellicola.
La sceneggiatura è raffazzonata? La regia incostante? Buttano dentro tremila cose nella prima mezz’ora tirandone fuori altre con un complesso meccanismo di specchi e leve? E non fa niente, va bene così. E caratterialmente sono molto portato a riconoscere quanto queste cose siano un problema, come ad esempio minare la compiutezza essenziale dell’opera presa a sé stante (impossibile) o quanto spesso la consecutio causa effetto sia problematica, ma credo che 007 sia l’unico personaggio che mi fa passare sopra tutto ciò e non è questo un motivo valido per premiare questo film? Per me sì.
Angelo Di Franco
Ad occhio e croce ho visto buona parte dei cinecomics prodotti fino a oggi, e, salvo qualche colpo di fulmine in giovane età (Batman di Tim Burton, Blade 2 di Guillermo del Toro, Spider-Man di Sam Raimi e, in tempi un filo meno remoti, Il Cavaliere Oscuro di Cristopher Nolan) si tratta di pellicole che non ho mai rivisto una seconda volta. Sono film che, a mio modo di vedere, lasciano un po' il tempo che trovano, soprattutto per il fatto che, ciclicamente, le varie saghe si riavviano con nuovi registi e attori, e la saturazione raggiunta del genere, tanto al cinema quanto in televisione, contribuisce ad alimentare questo mio pensiero. Però, con i film DC di Zack Snyder, le cose sono andate diversamente. Ho apprezzato sia L'uomo d'acciaio che Batman V Superman, al netto dei difetti più o meno evidenti delle due pellicole. Snyder è un regista che sa fare un certo tipo di cinema, ha una visione, ha un suo stile, ha delle idee, che porta avanti fino alla fine, anche quando, probabilmente, molti gli suggeriscono di fare il contrario. I toni cupi delle sue pellicole e le tonalità blu forse fin troppo abusate, si sposano perfettamente con l’idea di rappresentare i supereroi come degli Dei in mezzo agli uomini, in cui i loro poteri e le loro abilità sono talvolta più dei fardelli che dei doni. La nuova versione della Justice League è una sorta di concentrato della personale visione del DC Universe targato Snyder: esagerato, ambizioso, potente, epico e visionario. Rispetto a quel taglia e incolla del 2017 è completamente un altro film: il tutto è molto più coeso, i protagonisti sono maggiormente approfonditi (Cyborg diventa un personaggio centrale, addirittura con la propria origin story) e visivamente è uno spettacolo per gli occhi. Per farla breve – e restare sempre in tema – il film di Snyder e quello di Whedon sono diversi tanto quanto lo erano i Batman di Burton e quelli di Schumacher: i primi avevano uno stile e una direzione artistica ben precisi, i secondi erano più che altro pensati per catturare un pubblico molto giovane e vendere più giocattoli possibili. La pellicola non è perfetta, a chi non piace il cinema di Snyder non piacerà nemmeno questa versione, così come chi non ha amato L'uomo d'acciaio e Batman V Superman disprezzerà anche questa release. Ma è un film che, comunque la pensiate, vale la pena di guardare, anche solo per confrontare due stili completamente diversi come quelli di Snyder e Whedon e per capire com’è un film pensato da un regista e com’è invece un film pensato dalla dirigenza di una casa di produzione. Poi, beh, Snyder riesce a restituire dignità persino al Joker di Jared Leto, il che è tutto dire. La storia dietro alla release dello Snyder Cut mi ha veramente colpito, e sono davvero curioso di vedere cosa farà in futuro la Warner Bros con il DC Universe. Continuerà a produrre film stand alone cercando poi di raggruppare tutti i personaggi in film corali come questo? Utilizzerà i multiversi come pare accadrà nel film su Flash? Darà tutto in mano nuovamente a Snyder? Deciderà in base agli hashtag su Twitter e alle visualizzazioni dei trailer su Youtube? Probabilmente non lo sanno neanche loro. Lo scopriremo solo vivendo.
Stanlio Kubrick
Negli ultimi anni l’horror si è biforcato in maniera sempre più netta. Da un lato va tutta quella genìa di slow burn, di roba rarefatta e autoriale che esplode solo sul finale, che spesso ma non sempre si appoggia ad atmosfere folk o in alternativa ad approcci più indie-mumblecore, insomma gli horror che si portano bene nei salotti giusti. Dall’altro, il mainstream è andato sempre più decisamente verso la spettacolarizzazione e l’approccio non voglio arrivare a dire supereroistico ma comunque da blockbuster puro, e ovviamente in parallelo verso la creazione di cineuniversi, narrazioni condivise, franchise e altri bla bla. The Empty Man è tutte queste cose messe insieme, perché è tratto da una graphic novel che però è stata modificata e piegata alle esigenze e alle voglie di David Prior, ex ombra di David Fincher che per la prima volta si piglia i riflettori, perché ha il ritmo glaciale di certi horror che vengono bocciati da una parte del pubblico in quanto troppo lenti ma anche una delle scene di omicidio migliori dell’anno, perché sembra un classico film nel quale un gruppo di adolescenti evoca un’entità mala grazie a improbabili formule a metà tra la magia e il tormentone e in realtà si rivela essere una storia di orrori cosmici, apocalissi e cervelli fottuti, perché la title card compare solo dopo una ventina di minuti di cortometraggio d’alta montagna che da solo potrebbe vincere svariati concorsi di cortometraggi e non solo d’alta montagna, perché ogni volta che prende una strada che sembra banale riesce a scartare all’ultimo e finire in territori nuovi, inesplorati e spesso terrificanti. Perché c’è una scena con l’invasione zombi folk horror che altrove sarebbe stato un perfetto climax da terzo atto e invece qui è solo uno dei tanti momenti di passaggio prima delle vere scene madre. Perché è un film ambizioso e talmente convinto dei propri mezzi che non gliene frega nulla del rischio di allungare il brodo, rischio peraltro inesistente, visto che per due ore e diciassette minuti The Empty Man rimane saporitissimo grazie all’abbondante uso del Dado della Follia che contiene sale, verdure, glutine e un pizzico di abisso. Voto: 666/0
Alessandro De Luca
Confesso di non aver visto molti film usciti nel 2021, ma tra quelli che ho guardato, posso tranquillamente dire che il migliore sia Dune di Denis Villeneuve. Chi mi conosce sa che il regista canadese è tra i miei autori moderni preferiti. Adoro il modo in cui racconta storie, come le mette a schermo, con quel modo preciso e pulito di narrare senza dover ricorrere per forza alle parole. Dune non è il mio preferito tra i film di Villeneuve ma è comunque un’opera maestosa, con una forza creativa incredibile che finalmente non è ostacolata dai paletti imposti dalla produzione. La visione di Villeneuve e dei suoi collaboratori è impressa in ogni inquadratura, in ogni scelta di montaggio. Gli attori e le attrici lasciano tutti il segno, anche quelli in ruoli minori. Dune è una megaproduzione che mostra quello che i grandi autori sono capaci di fare quando sono liberi di esprimere la propria creatività senza essere obbligati a seguire un canovaccio preimposto, e il risultato è un trionfo e una celebrazione del cinema nel senso più completo del termine. E sono strafelice che abbia fatto abbastanza soldi da dare il via libera alla seconda parte della storia (il film copre circa la prima metà del libro di Frank Herbert).
Stefano Talarico
Letterboxd mi dice che quest’anno ho guardato solo 38 film. Di solito sono appena sotto ai 100. Il numero più ridicolo di una media abbastanza ridicola, in cui comunque svetta Dune di Denis Villeneuve. Non solo perché è l’unico film che ho visto due volte, ma anche perché il regista canadese è un manico assoluto, che se già aveva dimostrato di poter dare dignità artistica a un film superfluo come Blade Runner 2049 (la la la la, non vi sento, la la la), qui cala tutti gli assi del mondo, prendendo un libro di cinquantasei anni fa, che in cinquantasei anni ha ispirato tutta la narrativa di genere a prescindere dal medium, e ne ha tratto un film fresco, nuovo, mai visto, in grado di raccontare tanto a parole quanto per immagini, incantando lo spettatore al punto di farsi perdonare il fatto che ha chiuso il film a metà del libro. E poi, oh, ha portato al cinema una colonna sonora di Hans Zimmer che non è la solita colonna sonora di Hans Zimmer, anche solo per questo gli va dato merito.
Davide Moretto
Il film dell'anno è per me assolutamente una sorpresa: Dune. Adoro Villeneuve ma non mi ha mai interessato il mondo di Dune, sia se si parla del libro che del precedente lungometraggio di Lynch. Nonostante questo, ed essendo andato al cinema solo perché è un film di VIlleneuve, sono rimasto per diversi minuti con la mascella a terra, godendomi una cosa che sul grande schermo sinceramente non ricordo di aver mai visto, un vero capolavoro della fantascienza che per fortuna avrà il suo secondo e meritatissimo capitolo.
Natale Ciappina
Il mio film dell’anno è First Cow. Un film così delicato, colorato, scorrevole e proletario, non poteva che riguardare una mucca. Sentivo davvero il bisogno di qualcosa del genere, ma che dispiacere che sia stato pubblicato a luglio su Mubi e distribuito in pochissime sale: nessun bovino merita di essere abbandonato durante le vacanze.
Andrea Peduzzi
Quest’anno ha finalmente visto la luce Evangelion: 3.0+1.01 Thrice Upon a Time, quindi il mio film preferito è Evangelion: 3.0+1.01 Thrice Upon a Time, stop, e potrei pure chiudere qui, ma se lo facessi poi non avrei modo di magnificare la sequenza d’azione iniziale ambientata a Parigi, con quel tripudio di combattimenti, luci ed esplosioni praticamente a un tiro di schioppo da casa Maderna.
Oppure, incensare la digressione bucolica piazzata subito dopo l’introduzione, probabilmente una fra le cose migliori mai escogitate da Anno, nonché la risposta a quel vecchio scoreggione di Miyazaki che, tempo prima, gli aveva fatto la punta al cazzo a proposito della capacità di “raccontare storie piene di candore”.
Poi, OK, Evangelion: 3.0+1.01 Thrice Upon a Time non è come Mary Poppins, cioè praticamente perfetto sotto ogni aspetto; ogni tanto colora fuori dai bordi e, in generale, risente delle idiosincrasie del suo ideatore, un uomo dilaniato tra l’estrema sensibilità e un amore per i botti degno di Michael Bay. Ciononostante costituisce la conclusione perfetta per la serie/saga/quello che vi pare, oltre a fornire, per la prima volta dopo tanti anni, un accesso diretto alla cabeza di quel matto di Gendo.
Luca Cerutti
Datemi del banale, del superficiale, vedetemi come un Fabrizio [(c) 400Calci] qualsiasi, ma per quanto mi riguarda il 2021 se lo porta a casa Spider-Man: No Way Home, forte dei cinema riempiti come la pandemia non ci fosse mai stata (#einvece) e di sei, dico sei, applausi durante la proiezione, manco fossimo ad un festival.
Il trio Holland-Zendaya-Batalon si conferma come il più convincente gruppo di Supergiovani dai tempi della santa trinità harrypotteriana ma ciononostante devono sgomitare il giusto per tenere a bada dei matusa arrembanti come il sempre più vagamente inquietante Benedict Cumberbatch, un Willem DeFoe che cancella dalla memoria qualsiasi penoso tentativo di villain bipolare si sia visto negli ultimi anni (#coughJaredLetoCaccacough#) ed un Alfred Molina che con pochissimi sguardi e dialoghi ci restituisce un Doc Ock così furiosamente sofferente da volerlo abbracciare fortissimo e dirgli "shhh... andrà tutto bene, ora ci pensa Spidey!" (e, Sony, se questo è un piano cinico per monetizzare una serie spin-off con Doc antieroe... mi avete comprato!).
E devo pure dedicare un paragrafo a parte per dire che, nonostante Tom Holland sia "il mio Peter Parker" (sarà il fatto che è impossibilmente "regazzino"), non posso negare che a Tobey Maguire e Andrew Garfield, nonostante gli anni passati (e gli anni che hanno), bastino due mosse e due frasi per chiarire al di là di ogni dubbio che "Peter Parker Anch'io".
Certo, poi a fare i puntalcazzisti di difetti se ne trovano: la strizzatona d'occhio di Matt Murdock (strizzata d'occhio!! Avete capito, eh? eh?); il fatto che i Sinistri Sei sono cinque, ne ricordi quattro, hanno più di due battute in tre e alla fine ricordi solo che ci sono Walken e Molina. Un po' come nella barzelletta di Pierino sui cinque continenti.
Oppure il fatto che Zia May è Zio Ben, e non nel senso che gli darebbero Chiquito e Paquito, e io che ai tempi di Homecoming avevo sperato fortissimo l'avremmo scampata non ho preso benissimo (parere personale, eh!) questo ricicciare anche frettolosamente il poster motivatore "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità" [(C) Ziomorto].
Ma è tutto così piccolo, così futile, rispetto ai tre Spidey che, dopo un salto nel vuoto ed un volteggio, atterrano ognuno nella sua posa epica.
Sono una persona semplice.
Pacione Bosconovitch
Non sono un grande amante del mondo del cinema: anche per colpa del pessimo cinema della mia città, non conosco molto di quel che gira sul grande schermo. Tuttavia, la pandemia è riuscita a farmi riconnettere con qualche film supereroistico e demenziale che un po’ avevo perso per strada. Il film del mio 2021 lascerà sorpresi e perplessi molti, ma visto che non ci capisco un accidente di cinema, vi dico: a me Free Guy è piaciuto forse più del dovuto. Non fraintendetemi: prima di prendere picche e forconi, dovete ben comprendere che sono ignorante come una zappa per quanto riguarda il mondo del cinema, dunque quasi sicuramente ci sarà stato di meglio, ma ahimé, la mia ignoranza mi frena dal saperlo. Detto questo, ho apprezzato molto Free Guy, perché è riuscito nell’arduo compito di parlare di videogiochi in maniera leggera e interessante e a portare nel piatto un contenuto che può far riflettere molte persone: non solo affronta il rapporto tra i software creator e i colletti bianchi, ma riesce anche a farci riflettere su come i videogiochi ci istighino ad essere violenti all’interno dei loro mondi. In un’interazione quasi del tutto votata al predominio del più forte sia dal punto di vista economico che di pura potenza, quel che facciamo nei nostri giochi preferiti è cercare di dominare mostri e NPC programmati per quello. Fa scaturire diverse riflessioni interessanti e lo fa sempre intrattenendoti al massimo. Mi è piaciuto molto e sinceramente non me lo aspettavo.
Stefano Calzati
A livello cinematografico, è stato per me un anno di transizione. Non ho visto un film da marzo fino al 15 dicembre, una lunga pausa (non so neanch’io il motivo preciso, probabilmente doveva andare così) che si è interrotta con l’uscita su Netflix dell’ultima pellicola di Paolo Sorrentino, che su di me ha sempre un ascendente importante, irresistibile. È stata la mano di Dio a farmi rinnamorare del cinema, forse, in quella Napoli sospesa tra sacro e profano come la prima, surreale, sequenza, che racconta perfettamente una città dove anche un “semplice” calciatore può diventare santo, fermare il tempo, lenire drammi. Come quello che il regista ha vissuto da ragazzino e che ha deciso di raccontarci con tutta l’intensità di cui è capace; la morte improvvisa dei genitori che fa crollare le fondamenta di una vita serena, placida, tra pranzi di famiglia e gite in barca sotto lo sguardo paterno del Vesuvio, spezzando a metà il film, con una prima parte divertentissima, sguaiata, irriverente e una seconda introspettiva e febbrile, con la ricerca disperata di uno scopo che possa colmare quel vuoto. Straordinario.