Gli ultimi di Noi saranno i Primi
Ormai manca davvero poco a The Last of Us Part II. Perché dunque non scoprire il mito della creazione dietro al gioco?
Questo articolo è ispirato dai fallimenti.
Nel 2004, quando ancora era studente alla Carnegie Mellon University, Neil Druckmann partecipò a un entusiasmante progetto di gruppo. Uno dei suoi professori di corso era appena diventato amico di George Romero (nientemeno!), il leggendario padre degli zombi, e il docente incaricò i suoi studenti di creare un concept-design per un ipotetico gioco che sarebbe stato poi lanciato dal leggendario regista, non certo immortale come le sue amate e fameliche creature, visto che Zio George ci avrebbe abbandonato nel 2017.
Prima di questo, però, Romero avrebbe scelto il suo progetto preferito e il team dietro ad esso, avrebbe costruito successivamente un abbozzo, un prototipo di gioco. L'idea di Druckmann fu quella di unire tre delle opere che più lo avevano influenzato come creativo: il gioco sarebbe stato caratterizzato da un gameplay simile a quello di Ico, un grande classico dell’epoca (sigh) PlayStation 2 di Fumito Ueda; il personaggio principale sarebbe stato molto simile a John Hartigan del fumetto Sin City; infine, sarebbe stato ambientato proprio durante un’apocalisse zombi, simile a quella di Romero: La notte dei morti viventi.
La narrazione del gioco era inizialmente incentrata su un poliziotto burbero, che avrebbe dovuto proteggere una giovane ragazzina in un mondo pieno di mostri carnivori ed insidie ambientali. L’elemento distintivo di questo progetto era legato al protagonista, che aveva un grave problema cardiaco: ogni volta che la malattia si presentava al protagonista e, quindi, al giocatore, questi assumeva il controllo della ragazza, invertendo i ruoli protettore/protetto. Un’idea senza dubbio brillante, che ricorda vagamente il videogioco Amy, survival horror grezzo ma dalle potenzialità indubbiamente interessanti, che sostanzialmente costringeva il giocatore a proteggere la piccola Amy dalle minacce del gioco ma anche da noi stessi, che ci stavamo progressivamente trasformando in creature mutanti.
Alla fine, però, Romero scelse un altro progetto.
“L'idea di questi personaggi fu accantonata”, afferma Druckmann. “Tuttavia, non li dimenticai, affatto.”
Quasi un decennio dopo, quel concetto di base avrebbe generato uno fra i videogiochi più celebri di PlayStation 3 e PlayStation 4, un cult assoluto del videogioco dal valore insindacabile, che ha radicalmente trasformato l’intera industria dell’intrattenimento, come solo pochi videogiochi sono stati in grado di fare (Pong - Super Mario Bros - Tetris).
In questo articolo, tento del resto l’impossibile: dimostrare empiricamente che, dopo il 2013, tutto il mondo dell’intrattenimento ha seguito, si è ispirato o è rimasto coinvolto in qualche modo dalle orme profonde lasciate da The Last of Us.
Sviluppato da Naughty Dog, studio più noto per la serie Uncharted che altro, The Last of Us è sostanzialmente una storia post-apocalittica con una scrittura formidabile che, entro le battute finali, cambia il nostro piccolo, grande, medium videogioco. Come il trailer già svelava efficacemente, del resto.
La storia? Chi non la conosce? Ad ogni modo, provo a stare entro le dieci righe.
The Last of Us racconta del viaggio di un contrabbandiere che deve scortare una ragazzina fino alla sua meta, in un modo post-apocalittico, combattendo creature feroci sul suo cammino, non solo esseri umani. Una pandemia inarrestabile, dovuta ad un agente patogeno fungino che attacca gli esseri umani e li contagia, rendendoli estremamente pericolosi e portatori di un virus letale, è solo l’inizio.
Ma guardando più in profondità di “questa storia di zombie” (cit.), il viaggio di Joel non è altro che toccante restaurazione inconsapevole della sua figura paterna. Joel, alla fine, torna ad essere un padre, ed Ellie torna ad essere figlia. Ambedue ripristinano i loro ruoli di partenza, ruoli che questo mondo aveva brutalmente strappato loro, tra clicker, cannibali e militari. La straordinaria forma del racconto è composta in cicli (o, meglio, stagioni), che evidenziano ogni impasse che i due affrontano e che ha entusiasmato “quasi” tutti i giocatori che l’hanno vissuta. Nella situazione di partenza, sono poco più che individui con scopi, moralità e personalità differenti. Attraverso una metodica ed intensa realizzazione di gioco narrativo, sconvolgenti colpi di scena e una forma lineare del racconto, che altro non è che un rapporto osmotico uomo/ragazzina all'interno di un mondo in rovina, Naughty Dog restituisce i loro ruoli di appartenenza, rispettivamente "padre" e "figlia", a termine del gioco esperenziatico. Joel è un sopravvissuto che perde ogni voglia di vivere. Vent’anni dopo è diventato un uomo indurito, un contrabbandiere violento che alla fine incontra Ellie, una vispa ragazzina di quattordici anni, una persona davvero speciale per i toni della storia. I due formano un profondo legame nel tempo, destinato a un finale che alcuni hanno definito “un trauma emotivo senza eguali”.
L’industria dell’intrattenimento, da quel lontano 2013, non ha mai smesso di ispirarsi a questa storia, ragazzi, fatevene una ragione, accettatelo. Questo non scredita minimamente Half-Life 2, System Shock o I Have No Mouth and I Must Scream o molti altri titoli, ma reclama per The Last of Us un posto davvero speciale. Non sentitevi emarginati se il gioco non vi ha entusiasmato, osservatelo da un’altra prospettiva, più come un romanzo di formazione. Tanti registi, sceneggiatori, fumettisti e sviluppatori di videogiochi si sono definiti "debitori" o “ammiratori” di quello che hanno fatto i ragazzi di Santa Monica. Corey Balrog (creatore dell'ultimo, epico, God od War ma anche game director su God of War II e animatore capo sul primissimo God of War) Ha definito The Last of Us "un terremoto nell'industria". E non è stato l'unico. Sam Lake (Alan Wake) l'ha definito un gioco che è in grado di farti provare "tutte le stagioni" dell’anima. Shuhei Yoshida l'ha definito semplicemente “un gioco che tratta tematiche universali”. Ken Levine (BioShock/Irrational games) sta sviluppando un gioco simile (novembre 2018) e ha detto: "Mi è piaciuto così tanto che sento, come sviluppatore, il dovere di approfondire questo modo di raccontare i sentimenti."
Certo, tutte queste affermazioni potrebbero essere considerate tranquillamente relazioni di buon vicinato o corporative, tweet che raccolgono istanze comuni. Ma a ben guardare, liquidare la faccenda non è così semplice. C’è, volenti o nolenti, qualcosa che si è sedimentato profondamente nell’industria dei videogiochi, e anche al di fuori di essa, da quando The Last of Us ha iniziato, prima timidamente, poi con estrema chiarezza, a farsi largo, non solo tra i gusti del pubblico, ma in special modo tra i professionisti del settore.
Ci volle chiaramente del tempo affinché The Last of Us si dimostrasse "un nuovo stimolante inizio" (così disse IGN ai bei tempi) ma è quello che avvenne poi, a conti fatti. Il gioco ha lentamente germogliato dentro di noi, ha avuto bisogno di molti anni, nei quali si sono intervallati speciali e disamine tra le più disparate, non solo sempre e solo recensioni, che ad oggi possono essere tutte in gran parte parzialmente inefficaci ad afferrare la materia di The Last of Us, poiché si sconfina ampiamente nell’antropocentrismo.
[Sul nostro piccolo blog, io stesso ho realizzato una lunga serie di disamine su quello che chiamo “il trittico delle delizie” I Am Alive, The Last of Us e il romanzo The Road]
Ancora oggi, questo gioco fa così tanto discutere, fa spendere moltissimo inchiostro digitale, perché è una grande opera. E solo le grandi opere fanno crescere così tante discussioni, così diversificate, attorno a loro, così tanto dibattito. The Last of Us è un'opera che NON racconta dei soliti "sopravvissuti" della solita apocalisse zombi/mutanti, non è The Walking Dead, anche se è chiaro che ci sia qualcosa di The Walking Dead dentro The Last of Us e viceversa. The Last of Us non racconta delle dinamiche di gruppo, racconta invece di sentimenti, grandi e profondi di due persone, al massimo tre. Racconta il giocatore, come mai prima, che si trova ad essere osservatore del mondo, di tutto ciò che è fenomeno ed epifenomeno, con uno sguardo curioso che capta le immagini, la parole, i suoni degli eventi che fluttuano sulla superficie di qualcosa di rifuggevole ed intimo, difficile da spiegare. Non esagera chi definisce il gioco così intenso da stimolare l’istinto paterno in chi ancora non è in grado di riconoscerlo, o accettarlo.
La storia di un padre che non vuole più essere padre e di una figlia che non si è mai considerata tale.
Ma sarebbe ingeneroso definirla una storia di sentimenti, The Last of Us racconta moltissimo dei videogiocatori, di quello che vedono e provano davanti allo schermo, più di quanto loro stessi possano e vogliano ammettere, e Druckmann lo sapeva: "Volevo creare una protagonista femminile “cool” e non sessualizzata. E ho pensato che, se lo avessimo fatto, avremmo avuto l'opportunità di cambiare l’intero settore videoludico… Lo so che sembra pretenzioso, ma pensavo di poterci davvero riuscire”.
No, non lo è stato Neil. Non lo è stato.
Mentre l'idea di base è rimasta tale e quale, The Last of Us è complessivamente molto lontano dal tono originale che Druckmann aveva ideato all'università. E ci sono voluti molti fallimenti per arrivare alla destinazione finale. Il fallimento è di casa, in The Last of Us. Non molto tempo dopo aver assunto un ruolo importante presso Naughty Dog, dove iniziò come programmatore, Druckmann decise di voler rivisitare il concetto che era stato scartato dal sommo Romero - “Quale potrebbe essere un altro modo in cui posso esplorare questi personaggi? Cosa non funzionava? Cosa posso cambiare?" , pensò.
La risposta venne da un fumetto intitolato The Turning. Una miniserie che Druckmann scrisse e disegnò per buttare queste idee su una forma compiuta. In origine, il fumetto doveva essere una specie di esercizio di scrittura per Druckmann, ma alla fine, ne completò la sceneggiatura, e persino sei numeri. Questa volta, i ruoli erano stati leggermente cambiati, il poliziotto era diventato uno spietato criminale che aveva perso sua figlia. Quando l’ex-sbirro incontra la ragazzina, diventa il suo protettore, il suo golem.
"Si trattava principalmente di cercare di mettere in salvo questa ragazzina", spiega Druckmann. Tuttavia, alla fine del fumetto, sarebbe stata la ragazza a salvarsi la vita da sola, dopo essere stata catturata da alcuni ex-compagni criminali dell’uomo. Il piano originale di Neil Druckmann era di scrivere e disegnare il fumetto nel tempo libero. Alla fine, però, completò l’arco narrativo di sei numeri e lo presentò ad un editore indipendente. Ma, esattamente come era successo con George Romero, l'editore non ne era così entusiasta. "Gli piacque, ma non riuscì ad amarlo", così Druckmann liquidò la faccenda, riferendo il giudizio maturato dell’editore verso la sua opera. Era il secondo fallimento.
Nel frattempo, dentro Naughty Dog, Druckmann stava lavorando ai primi due Uncharted come game designer, ed entrambi si rivelarono successi critici e finanziari. Durante questo periodo, lui e il collega Bruce Straley (il game director su The Last of Us) cenavano spesso assieme per parlare di idee legate al gioco e di ciò che volevano fare in futuro. C'erano alcuni concetti che continuavano a saltare fuori, durante quelle cene. Uno era l'idea principale di Druckmann, che riguardava un personaggio vulnerabile ed il suo protettore, che alla fine avrebbe cambiato ruolo, mentre l'altro era quello di raccontare la storia di una ragazza muta, dentro un universo post-apocalittico. L'idea alla base delle opere nasceva nel momento stesso in cui la ragazzina non poteva parlare direttamente al gamer; tutta la comunicazione, quindi, sarebbe avvenuta attraverso le sue azioni. "L'idea originale che avevo era legata che tutto ciò che accade tra il giocatore e la ragazza, basata del tutto sulla meccanica di gioco", afferma Druckmann. Allo stesso tempo, i due erano rimasti affascinati da una notizia di natura scientifica, sul Cordyceps. Un fungo che essenzialmente trasforma le formiche in zombi senza cervello. E quello che volevano davvero fare era combinare tutti questi concetti in un unico gioco. Il risultato fu un titolo problematico, Mankind.
Proprio come in The Last of Us, il gioco è ambientato in un mondo in cui Cordyceps è balzato dagli insetti agli umani, trasformando gli infetti in mostri pericolosi che abbattono la civiltà. La differenza chiave, rispetto a The Last of Us, era che il virus avrebbe colpito solo le donne. Una prima versione di Ellie la vedeva l'unica donna immune al parassita fungino, con un Joel prototipale deciso a proteggerla, per portarla in un laboratorio dove poteva potenzialmente essere creata una cura. Ma non furono in grado di vendere l'idea, soprattutto dopo che diverse dipendenti di Naughty Dog espressero le loro preoccupazioni e perplessità. "La ragione per cui l’idea di Mankind è fallita… è perché era un'idea, di base, misogina… ", affermò Druckmann. Era il terzo fallimento.
Intorno al 2010, i due optarono per un'idea molto più vicina al gioco che alla fine venne pubblicato. Ma, come nelle versioni precedenti della storia, il tono iniziale di The Last of Us fu cambiato ancora una volta. "Semplicemente, non era onesto con i giocatori e con i personaggi", affermò Druckmann.
Uno fra i problemi principali del progetto iniziale era lo sviluppo repentino del personaggio, poiché la prima versione di Joel si trasformava molto rapidamente in una figura paterna per la ragazzina. Mentre nel gioco finale è un processo più credibile e graduale. Anche l’epilogo di questa prima versione fu un problema. Inizialmente, l'obiettivo era quello di costruire una scena in cui Joel si trovava inabile in una base di cattivi - legato e torturato, con un coltello alla gola - e chiaramente spettava a quell’abbozzo di Ellie salvarlo, uccidendo un altro essere umano. Era un finale che non si amalgamava davvero con gli archi dei personaggi, perché sia quella Ellie che quel Joel avevano già ucciso diverse persone, prima di arrivare a quella conclusione. Mentre i ripetuti fallimenti possono scoraggiare alcuni sviluppatori, per Druckmann fu una salvezza. Era il quarto progetto, forse era buono, ma doveva essere raffinato.
Il finale della prima versione di The Last of Us fu sistematicamente e completamente demolito, e riscritto numerose volte, fino ad arrivare alla controversa e potentissima conclusione di The Last of Us. Come nelle precedenti interazioni della storia, nella versione finale [SPOILER] Joel porta Ellie in un laboratorio delle Luci/FireFlyes, dove i medici tenteranno di creare un antidoto usando la sua immunità genetica come fonte del vaccino. Ma Joel e il giocatore, legatissimi a questo punto, scopriranno che per creare suddetto antidoto, Ellie deve - di fatto - morire - perché l’operazione lo richiede. A questo punto il suo istinto paterno, ed il nostro, maturato per tutto il gioco, si farà sentire, facendo sì che il mondo bruci, non ci interessa altro che Ellie. I giocatori sono quindi costretti ad uccidere tutti quelli che potremmo considerare i buoni, o quantomeno chi si spende per salvare la razza umana, consapevoli e riluttanti anche ad uccidere la ragazzina del resto, lontani dalla figura dei cattivi dei videogiochi. A questo punto, chiunque si metta in mezzo a Joel durante il suo tentativo di salvataggio, deve essere spazzato via, essenzialmente salvando Ellie alle spese del mondo, che perde la sua flebile opportunità di cura.
Più tardi, Joel mente ad Ellie, dicendole che i dottori hanno effettivamente smesso di cercare una cura. Quando lei espone nuovamente un dubbio sugli ultimi eventi, che l’hanno vista svenuta per molto tempo, lui mente di nuovo ed Ellie accetta semplicemente la menzogna dell’uomo, proferendo quell’“okay”, che sa di viaggio compiuto, pesante come una pietra o una cannonata. Prima che lo schermo diventi nero e i titoli di coda scorrano, assieme alle nostre lacrime, i dubbi di aver vissuto un immenso capolavoro generazionale si fanno ampiamente strada dentro di noi. Era una conclusione progettata per essere aperta all'interpretazione. Cosa farà, Ellie, dopo? Lei gli crede davvero? Druckmann ha idee precise, in merito.
Per Neil Druckmann, che divenne padre durante lo sviluppo di The Last of Us, trasformare Ellie in un personaggio forte e capace non fu affatto un caso fortuito: "Avevo questo programma segreto che tenevo solo per me" - disse durante un discorso alla International Game Developers Association di Toronto - "Volevo creare una protagonista femminile non stereotipata ma reale, credibile, toccante. Una nuova identità del videogioco, molto femminile” - "The Last of Us è in circolazione da pochi mesi" - spiegò -
"Ma sono piuttosto orgoglioso dell'impatto che ha avuto finora". Druckmann non si riferisce solo al ruolo della co-protagonista di The Last of Us, ma di come il suo gioco ha portato una nuova brillante concezione di identità femminile dentro al videogioco moderno, spingendo molti altri team creativi a costruire personaggi femminili credibili, che non siano solo contenitori di curve.
Non solo Ellie ma tutti i ruoli femminili secondari nel gioco rappresentavano efficacemente donne forti ed indipendenti, molto più profonde di un semplice aspetto o di una riconoscibile voce sensuale. La moglie del fratello di Joel (Maria) gestiva un complesso di sopravvissuti (e il loro matrimonio) con pugno di ferro. Tess non era una semplice compagna di vita per Joel, ma una scaltra partner d’affari, che aveva dato il via a tutta la storia. Marlene ha guidato le Luci e ha avuto una fra le scene più tragiche dell'intero gioco, dove la sua femminilità esplode quando chiede di avere pietà. Tutte queste donne erano, prima che avatar di un videogioco, persone credibili, che corrispondevano realisticamente al loro ambiente e al racconto. Qui non ci sono scontri a fuoco in bikini e non si vede nemmeno una spalla scoperta, perché una spalla scoperta significa esporsi al morso o al virus. Vale anche la pena di citare la breve, incredibile, e intensa sottotrama con Bill e il suo fidanzato gay: tragica e toccante, così come la scelta della scrittura (attentissima) di aspettare a rivelare l'orientamento sessuale dei personaggi fino a quando, dopo aver sviluppato la relazione di collaborazione, mostra quelle che erano predisposizioni iniziali. Anche la visione del rapporto omosessuale fa saltare l’industria in avanti di almeno un decennio. Accidenti, non volevo e sono finito a dilungarmi ancora una volta su The Last of Us. Avrà mai fine?
Inutile dire che questo non è stato solo uno fra i più grandi giogchi a cui abbia mai giocato ma una fra le migliori storie che abbia mai visto e a cui abbia mai giocato. E la vasta gamma di personaggi credibili da sfondo in questa storia è stata parte fondamentale di quell'esperienza profonda, ricca, stimolante, commovente ed emozionante.
A pochi giorni da The Last of Us Part II e dopo aver accolto positivamente l’annuncio della serie TV, (attualmente, in pre-produzione), viene da chiedersi solo una cosa, alla fine di questo lungo, ma spero stuzzicante speciale: può la critica videoludica, per quanto sacrosanta e lecita, recedere, almeno per una volta, dalla sua sacra missione peculiare e rinunciare a sé stessa, ammettendo candidamente che certe cose, prima di poterne parlare, bisogna quantomeno sentirle?
Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.