I figli degli uomini e l'apocalisse senza innocenti
“Quando i rumori dei parchi gioco svanirono, arrivò la disperazione. È molto strano quello che succede in un mondo senza voci di bambini.”
Come una scala musicale privata della sua nota più squillante, un “si” negato, zittito con un cenno del capo, lasciando spazio solo a quel fischio nell’orecchio, ultimo respiro delle cellule morenti nei timpani. Il 2027 che Alfonso Cuarón vuole raccontare ne I figli degli uomini (adattando l’omonimo romanzo di Phyllis Dorothy James) è un anno qualunque nel pieno dell’apocalisse, una fine del mondo alla quale non si può cercare di sopravvivere nascondendosi in un bunker antiatomico, indipendente da guerre mondiali e crisi climatiche, orfana di eroi pronti a sacrificarsi per far saltare in aria un meteorite nel mezzo della sua inamovibile traiettoria. È l’apocalisse della fertilità, come se un dio avesse deciso di porre fine alla sua creazione nel più crudele dei modi, lasciando friggere i suoi figli nella disperazione di un mondo senza seconde chance, senza una prossima generazione a cui addossare i propri errori, ammirando il proprio ultimo atto di egoismo. Una finestra sul vuoto in una casa divorata dalle fiamme. Una condizione che a pensarci toglie il fiato, l’oblio della morte senza la consolazione che, anche senza di noi, l’umanità potrà andare avanti. Fine. Senza futuro, senza speranza, senza rinunciare però a concetti ormai insulsi, come il possesso, i confini, riducendosi alla lotta per la sopravvivenza più grottesca e insensata che si possa pensare. Ed ecco che, in un Regno Unito apparentemente salvo dall’anarchia che ha travolto gli altri paesi, gli immigrati vengono trattati come animali, rinchiusi in gabbie per poi essere (de)portati in città-ghetto ad essi “dedicate”, non prima di venire sfoltiti sommariamente come capi di bestiame malati; le metropoli preda del degrado, sporche, rassegnate, immerse in un pesante clima fascista e illuminate solo dalle bombe di sanguinosi attacchi terroristici; ora colpa dei Pesci, organizzazione che si batte per i diritti degli immigrati, ora colpa degli stessi rifugiati, più probabilmente semplici diversivi del governo per fomentare l’odio. Governanti invisibili, rappresentati solo dal vuoto che hanno lasciato, limitandosi di ricordare ai cittadini, più che altro fantasmi, di “denunciare qualunque clandestino”. Un rigido autunno dell’umanità, senza alcuna possibilità di rivedere la bella stagione, almeno finché un raggio di sole le buca davvero, quelle nuvole di piombo. Una donna incinta, un miracolo, l’inizio di un vero “viaggio della speranza” per evitare l’estinzione.
L’emblema di questa apocalisse è proprio il suo protagonista, Theolonius Faron, interpretato da Clive Owen, uomo segnato dal dramma della perdita di un figlio e dal successivo divorzio con Julian, ora a capo dei Pesci. Totalmente apatico, rassegnato, a un passo dall’acquistare uno dei pratici kit per il suicidio assistito in vendita in farmacia, giusto per concedersi un attimo di serenità. Poi l’incontro con Kee, giovane donna africana come la culla stessa dell’umanità, incinta, temperamento vulcanico, forte ma sola, finita in mezzo ad una lotta intestina ai Pesci per il comando dell’organizzazione che aveva promesso di proteggerla ma che, alla fine, la vuole solo usare come materiale da campagna elettorale. Faron si ritrova così con uno scopo, qualcuno da proteggere, un traguardo che non sia effimero, inutile, materiale. È come risvegliarsi da un incubo, aprendo gli occhi davanti a una realtà più terribile di quanto ci si ricordasse, in quello stato di torpore generale. Non è più una lotta per la sopravvivenza ma una lotta per la vita, con quest’uomo, comune burocrate senza particolari abilità, che combatte come probabilmente non ha mai dovuto e voluto fare, con la forza della disperazione, consapevole di dover proteggere la figlia di tutti gli uomini dagli orrori che essi stessi hanno creato, in preda al panico. Lui in infradito e felpa di Londra 2012, probabilmente l’ultima occasione di festa prima che ci si rendesse conto che la catastrofe era irreversibile, lei coperta il più possibile per nascondere la pancia, rivelata in una scena magistrale, iconica; una Madonna in una stalla, padre sconosciuto e figlio destinato a cambiare le regole della società. Una scintilla di spiritualità in un mondo abbandonato da Dio, sceso per prendere le sigarette senza mai fare ritorno. E in un mondo in cui neanche la scienza è riuscita a spiegare e risolvere questa improvvisa infertilità, tutto assume i connotati del castigo divino; gli aborti improvvisi come la morte dei primogeniti egizi, i pianti dei bambini che sfumano nei pianti dei genitori, i reparti ospedalieri che si svuotano, il silenzio. È come avere la conferma, terribile e vertiginosa, sul senso della vita: nessuno.
Eppure, I figli degli uomini è un film di grande speranza (e con un forte sottotesto religioso), una pellicola che punta il Domani (o, meglio, la Domani, nave del Progetto Umano, ONG che non ha mai smesso di costruire un ponte sul baratro) per 109 minuti, nonostante tutto sia sostanzialmente già andato a rotoli e chissà se la nascita di un bambino possa davvero cambiare le cose, fatto che non sarà mai chiarito al pubblico. Se poi a dare forma a una sceneggiatura del genere c’è un genio assoluto come Cuarón, affiancato da Emmanuel Lubezki alla fotografia (tre volte premio Oscar, con Gravity, Birdman e Revenant - Redivivo), non sorprende trovarsi davanti a un’opera formalmente fuori di testa e che fa di tutto per trascinare dentro la sua distopia. Lo fa soprattutto con quattro piani sequenza da manuale del cinema, utilizzati in modo chirurgico, virtuosi e mai vezzosi, scegliendo la soluzione più complicata pur di raccontare il dramma, l’agire in preda al panico, la fragilità di una “normalità” di per sé effimera. Ci vuole mano, visione, classe per pensare una scena del genere…
… girata in questo modo…
… capace di riassumere in poco più di quattro minuti tutto il mondo, il tessuto sociale, la brutalità di chi non ha niente da/tutto da perdere. È poi in un finale da brividi, la cui tensione traina lo spettatore verso lo schermo, in punta di poltrona, ché il cerchio si chiude quando, in un contesto da guerra civile, si compie il miracolo. In mezzo ai proiettili che sibilano tra le mura di un palazzo fatiscente, la piccola comincia a piangere, disperata, stanca, sinceramente offesa dal disastro che la circonda, dopo neanche ventiquattro ore di vita. Un suono che nessuno sentiva da più di diciotto anni, quella nota acuta, penetrante, abbagliante. Theo e Kee percorrono i corridoi, abbracciati come a volersi fare forza, tutti i rifugiati guardano la bimba con gli occhi di chi non ha mai visto niente di più bello. È una scena mistica, gli spari cessano, dai ribelli ai soldati, tutti rimangono attoniti ad ascoltare quelle grida innocenti, come a volerli ammonire tutti, uno ad uno, per aver perso la fede e la speranza. E loro allungano le mani, vogliono sfiorarla, baciarla, sussurrarle una parola dolce, cantarle una ninnananna. Anche il movimento della scena, dai piani superiori fino all’esterno, sembra voler simboleggiare la discesa sulla Terra di un’entità superiore. È qualcosa che unisce ogni credo (ma anche chi un credo non ce l’ha), un messaggio universale che urla quanto ci si possa trasformare in bestie se ci si dimentica di lasciare un mondo decente a chi verrà dopo di noi, ragionando come se la nostra generazione fosse l’ultima, l’unica che conta, “tanto, quando succederà, io sarò già morto”. Un film violentissimo e crudo nel mettere lo spettatore davanti a situazioni che spesso vediamo passare nei TG della sera, distrattamente, tra un boccone e l’altro, perché tanto non sono fuori dalla nostra porta, mentre l’apocalisse invece è già lì, sotto forma di odio, inquinamento, guerre lontane migliaia di chilometri, come una fuga di gas che ha già saturato casa e aspetta solo che venga acceso un fornello. L’immagine riflessa di noi che guardiamo il dito, il problema immediato, quello da risolvere subito, senza pensare più in là della prossima bolletta da pagare, mentre la Luna ci sta cascando in testa. A guardarlo oggi, è poi un monito ancora più inquietante e attuale rispetto a quanto non lo fosse nel 2006, un pezzo di cinema capace di scuotere come uno schiaffo a mano aperta.
Un capolavoro di tecnica, con idee registiche clamorose e molteplici strati di lettura, che vanno dal film di genere, godibilissimo così com’è (anche perché ha un ritmo perfetto), alla reinterpretazione evangelica in chiave post-apocalittica, arrivando poi alla feroce critica al sovranismo xenofobo. Lo si può veramente riguardare decine di volte e trovarci sempre qualcosa di sorprendente, un motivo di riflessione, un movimento di macchina da far esplodere il cervello. Un classico da portare in palmo di mano e diffondere (‘ché ne sento parlare sempre troppo poco).
Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.