WALL-E e l’apocalisse in crociera, belli comodi
Se c’è una cosa che ho sempre adorato di WALL-E, è il suo intendere la fine del mondo come se l’umanità fosse una di quelle famiglie particolarmente incivili, che si svaccano in qualche parco la domenica, apparecchiano per il picnic, si strafogano e poi mollano tutta la loro monnezza all’ombra degli stessi alberi che li hanno cullati e protetti da un’insolazione. E infatti è proprio così! Si sfrutta il pianeta, finché ce n’è, e poi via, si organizza una bella crociera spaziale mentre gli schiavi robotici ripuliscono il disastro che quella massa di consumisti dell’ostia si è lasciata dietro, tipo quelli che devono pulire i cessi dell’Alcatraz a fine serata. Intanto, gli umani si godono la cattività, circondati da talmente tanti agi da non dover neanche sbattersi per camminare, imbottiti di cibo e storditi dall’intrattenimento, all-inclusive, barattando il futuro in nome della comodità. Perché l’uomo fa così: se gli dai un bene materiale, tangibile, immediato, non ci pensa due volte a dimenticarsi dell’ambiente che lo circonda, preferendo soddisfare un piccolo bisogno, destinato a trasformarsi nell’ennesimo rifiuto.
Menefreghismo indotto dall’iper-capitalismo incarnato da Shelby Forthright (interpretato da Fred Willard in carne e ossa, pace all’anima!), proprietario della Buy N Large ma soprattutto leader del MONDO, esasperando in maniera monopolistico-dittatoriale quella che alla fine è già un po’ la nostra realtà. Apocalisse in villeggiatura, annoiandosi un po’ e guardando da un oblò il mondo che perde colori, l’azzurro annebbiato dall’inquinamento, il verde che smette di ricevere nutrimento dal sole morendo lentamente in un’ocra desolante e senza vita, se si esclude un adorabile robottino, l’ultimo della sua serie. Perché si, secondo i piani di Forthright, doveva essere una vacanza di giusto cinque anni, il tempo di dare una rassettata, ma ad un certo punto, lo spazio sotto il tappeto è evidentemente finito e la conta dei danni ha cominciato a mostrare risultati irreversibili, almeno per i successivi settecento anni. Nel frattempo, WALL-E (Waste Allocation Load Lifter Earth-Class) lavora sereno, sa farsi il tagliando da solo quando necessario e raccoglie memorabilia dei tempi che furono; Zippo, cubi di Rubik, pratici cucchiai-forchetta, scoprendo l’umanità attraverso l’ingegno di cui era capace e rendendosi conto, giorno dopo giorno, di cosa sia la solitudine e di quanto sarebbe spettacolare trovare quell’amore che guarda con occhi (videocamere?) sognanti tutte le sere sul piccolo schermo di un vecchio iPod, collegato a un lettore VHS con la cassetta di Hello, Dolly! in heavy rotation. Un amore che sboccia come la prima piantina che ha deciso di bucare la terra da secoli a questa parte, come a dire “È ora di ricominciare, la Terra vi ha perdonati, semaforo verde!”, quando EVE (Extraterrestrial Vegetation Evaluator) arriva sul pianeta per cercare segni di vita. Colpo di fulmine (e qualcuno di cannone protonico, prima). Come una reinterpretazione di Adamo ed Eva scritta da Asimov, è il più potente tra i sentimenti a far rinascere la terra, l’amore di chi si crede non possa provare emozioni, asservito al benessere umano e nient’altro.
Una dolcezza irraggiungibile anche dai più talentuosi attori umani, che non ha bisogno di parole (in quello che per metà rimane praticamente un film muto), se non quelle pochissime che riescono a modulare attraverso gli altoparlanti integrati. Bastano quei pochi sguardi che i loro programmatori hanno concesso, quei gesti meccanici dedicati al lavoro, trasformati nel linguaggio di un amore universale che colpisce fortissimo. Come quando EVE raccoglie la piantina trovata da WALL-E ed entra in modalità riposo, in attesa che la navetta torni a recuperarla. Il nostro eroe tutto arrugginito la accudisce come se fosse incinta, la protegge dalla pioggia, la porta a visitare il posto più romantico della zona, dove godere di un pallido tramonto vista discarica, nella speranza che si riattivi al più presto. È una scena che ti prende il cuore e te lo compatta come farebbe un camion dell’immondizia. Purezza, innocenza, meraviglia. La piantina, verde e rigogliosa come un bimbo adottivo da proteggere a tutti i costi, green come l’economy che gli umani rinsaviti andranno a sviluppare una volta ritornati sulla terra e recuperata una postura eretta, dopo generazioni di vita da divano, imboccati e indottrinati, serviti e riveriti come animali da consumo. Una gabbia dorata, si, ma alla fine al macello ci finisci lo stesso. Un’umanità a cui erano state tranciate di netto le radici con la Terra per trapiantarla nello spazio, viziata nell’ignoranza che ha eroso ricordi e spezzato il filo diretto della Storia tramandata, trasformando il gruppo in tanti singoli senza obiettivi che non siano metabolici. È adorabile vedere il capitano McCrea della nave da crociera Axiom che, dopo aver scoperto della possibilità di poter rientrare finalmente sulla Terra, si documenta sulle meraviglie naturalistiche e culturali di cui era capace questo incredibile pianeta, passando tutta la notte a farsi descrivere dalla voce del computer quello che appare a schermo, dagli ecosistemi alle danze, innamorandosi perdutamente di un qualcosa che non ha mai avuto la possibilità (e forse nemmeno l’interesse) di vedere. Il piacere della riscoperta, come farsi raccontare dai nonni com’era la vita ai loro tempi. Piantare il seme della curiosità in una mente inaridita.
E poi c’è sempre il sigillo di qualità Pixar, la fotografia dualista tra desolante post-apocalittico e rigoglioso design futuristico, il ritmo talmente perfetto da poter essere tenuto col piede, il fatto che riesca a comunicare praticamente tutto attraverso le immagini e le musiche, senza sprecare carta per stampare i copioni. Uno dei film a tema ecologico più diretti ed efficaci mai girati, che vuole credere nell’umanità, sempre un po’ frenata dalle sue comodità ma inconsciamente consapevole, che qui il tempo stringe e la situazione sta diventando un letamaio, la cui puzza si sente pure quando ci rifugiamo dietro la gonna di Madre Natura, che ci ricordiamo esistere solo nel weekend, come fosse un’amante da incontrare in motel. Personalmente, mi sbilancio e dico “best Pixar ever”, lanciando il sasso e nascondendo la mano alla vista dei super-fan di altre pellicole, ma anche senza la mia superflua etichetta, siamo onestamente davanti a un cult dell’animazione come ce ne sono pochi, così perfetto in tutto quello che vuole fare, così intenso e anche capace di fare della gran fantascienza (molto fanta, vien da sé), impreziosita da una vena satirica piccante e un orto di idee da cui nutrirsi. E poi gli occhietti tristi di WALL-E mi si manifestano tutte le volte che dimentico di fare l’umido, pensando che tutto il peso della mia pigrizia andrà a cadere sui cingoli di un suo simile, e mi sento malissimo. Anzi, adesso vado a fare la pattumiera come Dio comanda.
Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.