Il nuovo DuckTales mi piace più di quello vecchio (woo-oo!)
Se, come il sottoscritto, durante gli anni Ottanta eravate lettori accaniti di Topolino e di tutti quei settimanali e almanacchi che giravano attorno al pollaio Disney, ricorderete senz’altro il botto pazzesco provocato dall’arrivo di DuckTales. Sì, perché se da un lato ogni linea di fumetti o giocattoli aveva il suo bravo cartone animato di rappresentanza, bello, brutto, giapponese o americano che fosse, per quanto riguarda zio Paperone, toccava accontentarsi di cortometraggi tipo Paperone e il denaro, o Il canto di Natale di Topolino. Roba senz’altro carina, chi dice niente, eppure distante mille miglia dal taglio avventuroso appiccicato al personaggio dal suo creatore, Carl Barks, e sviluppato anche qui in Italia da autori come Romano Scarpa o Giorgio Cavazzano.
Insomma, non era proprio caso che gli stessi ragazzini che ti leggevano storie come Zio Paperone e l'avventura in Formula 1 o Paperinik e l'arca dimenticata si facessero andar giù i corti didattici. Ci voleva la roba seria, e quando finalmente arrivò, preceduta da una campagna pubblicitaria abbastanza martellante, un sacco di genitori furono obbligati a comprare un videoregistratore.
Negli Stati Uniti, infatti, la prima stagione di DuckTales sbocciò su Disney Channel a partire dal settembre del 1987, mentre qui da noi, almeno all’inizio, arrivò soltanto in home video, attraverso queste costosissime videocassette contenenti tre o quattro episodi ciascuna. E fu comunque una botta, eh, nonostante questa cosa che non c’era Paperino, a favore di Jet McQuack, e una qualità generale non sempre costante, evidente soprattutto quando si usciva dal seminato di Barks. Ma chissene: all’epoca, ripeto, eravamo come un branco di assetati nel deserto e ci saremmo bevuti qualunque cosa.
Insomma, successone (I). Così successone (II), che da quella roba lì saltarono fuori film, spin-off, fumetti e, in generale, tutta una nuova generazione di produzioni per la televisione pesantemente influenzate dallo spirito dei paperi.
Così successone (III) che, nel 2017, qualcuno tra i papaveri Disney ha pensato bene di riportare in auge la serie con un reboot prodotto da Matt Youngber e Francisco Angones (quest’ultimo proveniente da Ben 10: Ultimate Alien, da Teen Titans e dal The Batman animato di metà Duemila), ma soprattutto con alla direzione artistica Sean Jimenez, che per chi non lo sapesse, ha un curriculum di collaborazioni che spazia da Mulan al Il gigante di ferro, fino ai recenti Adventure Time e Gravity Falls.
E già che c’era da mettere mano al portafogli, si è speso anche nelle voci, tra nomi abbastanza noti come quelli di Ben Schwartz, Danny Pudi e Toks Olagundoye, e altri notissimi tipo David Tennant (che ovviamente fa Paperone, scozzese per scozzese) e Tony Anselmo, doppiatore ufficiale di Paperino dal 1985, che qui doppia, ovviamente, Paperino, tornato finalmente in un ruolo di primo piano.
Il papero incazzoso vestito alla marinaretta™ non costituisce tuttavia la principale novità del nuovo DuckTales, ché il titolo spetta nettamente all’entrata in scena di Della, la sua sorella gemella scomparsa da anni nonché madre di Qui, Quo e Qua, fino a ieri uno tra i personaggi in più misteriosi e meno esplorati della famiglia dei paperi, menzionato fin dal 1937 ma disegnato una volta sola nella Saga di Paperon de' Paperoni di Don Rosa, nei primi Novanta.
Saga, tra l’altro, che assieme ai soliti classici di Barks, ha senz’altro influenzato il lavoro di Youngber e Angones, sia per i toni leggermente più maturi che distinguono questo nuovo DuckTales, che per l’esercizio di mitopoiesi alla base di questa o quell’altra variazione sul tema.
Per quanto riguarda il design, invece, si è scelto di abbandonare i disegni morbidi dell’originale a favore di uno stile più spigoloso e, se lo chiedete a me, più accattivante, che mescola il tratto di Barks con certa animazione Disney degli anni Sessanta (in particolare, quella diretta da Milt Kahl, penso a La spada nella roccia o a La carica dei 101). Stile che attraverso una serie di artifici linguistici, tipo i retini a vista, procura alla serie quella patina a metà tra vecchio e nuovo, assolutamente in linea con le storie che ospita.
Ancora una volta, tutto gira attorno alle avventure di Paperone e famiglia allargata, chiaro, ma gli autori sono riusciti a far girare un po’ d’aria ritoccando il carattere dei protagonisti, a cominciare da quello dei tre nipotini, che smettono finalmente di essere interscambiabili e sfoggiano personalità sensibilmente diverse l’uno dall’altro.
In generale, qualche aggiustatina è stata riservata anche ad Archimede Pitagorico, Amelia o Gastone, ma a risentire della gomma sono stati soprattutto i comprimari del DuckTales originale, praticamente riscritti da zero, con la sola eccezione di Jet McQuack. Le nuove Mrs. Beakley e Gaia sono nettamente diverse da quelle del 1987, ed è un bene, visto che all’epoca rientravano tra i punti deboli della serie.
E poi c’è la rediviva Della, la cui implementazione nel cast costituisce, narrativamente parlando, una fra le trovate più coraggiose degli ultimi anni, sia dentro che fuori dalla roba di paperi. Lo è sia per come va a scalfire la quell’aura di intoccabilità di certi equilibri, sia perché trascina all’interno della serie diverse tematiche complesse, legate a suo ruolo di madre assente, seguendo tra l’altro una costruzione narrativa che ricorda molto da vicino l’analoga di un’altra serie animata Disney degli ultimi anni, Gravity Falls.
A oggi, ancora non l’ho detto, del nuovo DuckTales esistono due stagioni complete, trasmesse anche in Italia via Disney Channel dal 2017 al 2019, mentre la terza è cominciata negli Stati Uniti all’inizio dello scorso aprile. In entrambi i casi, abbiamo a che fare con una continuity piuttosto fitta, punteggiata di tanto in tanto da episodi autoconclusivi, oltre che da situazioni ricorrenti, tipo i momenti in stile Bond di Mrs. Beakley o quelli nostalgici con Doretta.
Nel complesso, la qualità della scrittura è comunque alta - più alta che nel DuckTales classico, a scanso di equivoci - con picchi sui finali di entrambe le stagioni e, in generale, un sacco di momenti drammatici che non ti aspetteresti da una produzione (che resta comunque) per ragazzi.
In generale, la sensazione è quella di essere davanti a una serie confezionata da gente sinceramente innamorata dell’universo Disney, che lo conosce a menadito ma che allo stesso tempo non ha paura di prendersi bei rischi per tirarci fuori qualcosa di nuovo (vedi alla voce di “reboot perfetto”).
Questo articolo fa parte della Cover Story “Disney Club”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.