Kafka sci-fi: Cube
C’è stato un momento, circa vent’anni fa, nel quale sembrava che Vincenzo Natali, canadese di chiare origini italiane, sarebbe potuto diventare il capo del mondo. Un momento durato molto poco, giusto il tempo di far passare un po’ la sbornia collettiva per The Cube e assistere al resto della sua carriera, ma che momento incredibile! Era il 1997 e ancora non immaginavamo che un giorno ci saremmo trasformati tutti nei protagonisti di quel film, rinchiusi entro quattro mura in cerca di una via d’uscita che si sposta costantemente e non dà punti di riferimento nel suo galleggiare tra numeri più o meno incomprensibili e interpretabili in milleottocentosette modi diversi a seconda di come li guardi. È bello ripensare oggi a The Cube e immaginarlo come una metafora della quarantena nella quale ci troviamo – almeno io ora mentre sto scrivendo, non so tu lettore immaginario dell’anno 2022 come sia messo, nel caso fammelo sapere che sono curioso – ma la realtà è che non c’è alcun legame tra le due cose e The Cube era, e rimane ancora oggi, nient’altro che uno dei film high concept più riusciti di quest’ultima parte dell’esistenza della nostra specie e del cinema in particolare.
Natali ci arrivò così, con un cortometraggio fatto per dimostrare alcune delle idee dietro alla sua opera e che ancora oggi, al netto della quasi-impossibilità di reperirlo in qualità decente, fa la sua porca figura:
The Cube, che poi in realtà si intitola solo “Cube” e non mi è chiaro perché il “The” sia entrato a far parte della conversazione, è un adorabile filmino di fantascienza che non vuole dire cose troppo profonde o intelligenti e che preferisce concentrarsi sull’idea sulla quale è costruito e ricamarci sopra spunti, situazioni e colpi di scena. È un po’ Kafka e un po’ Harlan Ellison, un film in teoria a location singola che gioca con suddetta location (un cubo, appunto, cioè una stanza a forma di cubo) e la trasforma, con un impeto quasi videoludico, in un generatore costante di trappole e situazioni di vita o morte; una serie di test per i sei protagonisti, che in teoria servono per insegnare loro qualcosa e per raccontare a noi qualcosa su di loro, e in pratica diventano (anche) uno strumento di trama per eliminarli uno dopo l’altro in una sorta di Dieci piccoli indiani complottista.
Funziona tutto benissimo ancora oggi perché non c’è nulla di davvero spiegato: i nostri cinque amici (il sesto si aggiungerà in corso d’opera) si svegliano in un cubo e da lì cercano di capire come ci siano finiti e soprattutto come uscirne. Come nei migliori thriller e anche come nelle migliori avventure grafiche, il primo giochino è quello della caccia agli indizi e agli spiegoni: consapevole di come si costruisce un mistero, Natali comincia subito a tirare in ballo roba tipo numeri primi e rilevatori di movimento, e non spreca tempo neanche ad ammazzare il primo dei suoi personaggi, così da coinvolgere subito anche coloro che non sono interessati alle provocazioni intellettuali. I primi minuti di Cube sono il manifesto di quello che succederà da lì in avanti: ci sono delle stanze, tutte uguali e tutte cubiche, e ci sono delle persone che si spostano di stanza in stanza, cercando di non morire e magari, nella migliore delle ipotesi, di trovare una via d’uscita da questa galera.
Come accennato sopra, è I Have No Mouth and I Must Scream, virato al kafkiano, perché privo dell’elemento orwelliano di controllo (l’Allied Mastercomputer del racconto di Ellison), sostituito qui da una certa strisciante paranoia complottista, che porta il film decisamente in territori “il governo cattivo fa gli esperimenti sui suoi cittadini” (spunto che verrà ahinoi approfondito, spiegonato e quindi rovinato nei due dimenticabilissimi sequel).
A riguardarlo oggi, Cube è una sorta di piccolo manuale di ispirazione per tante cose che verranno dopo: è impossibile non pensare a Lost, per esempio, ma anche in un certo senso a Saw, e non è un caso se anche il recentissimo The Platform è stato paragonato al film di Natali. Approfitto proprio di quest’ultimo riferimento per dire: è vero, accetto il paragone, ma la vera forza di Cube è nell’assenza, l’assenza di tutti quei metaforoni smarmellati che rovinano il film Netflix e che invece qui se ne stanno buoni e in silenzio, soffocati dal sangue e dalla violenza e dalla paranoia.
Cube è un film sadico e disinteressato al lieto fine, tutto concentrato sulle sue trappole e sul fregare i suoi protagonisti – si veda tutte le volte che questi si convincono di aver trovato la soluzione al rebus e rimangono scottati appena provano a metterla in atto – e con loro anche chi guarda. È un film più affezionato alla sua struttura, e alla struttura del suo set, che agli esseri umani che lo popolano, che diventano poco più che cavie per dimostrare il funzionamento della macchina di Rube Goldberg più cattiva che ci sia.
Ci sarebbero tante belle storie da raccontare su com’è nato e com’è stato realizzato Cube, dal fatto che il cubo è stato disegnato con l’aiuto di un vero matematico in carne e ossa (esistono!), a quello che le mille stanze che si vedono nel film sono in realtà la stessa struttura, che cambiava colore di scena in scena grazie a pannelli mobili e che ha quindi obbligato Natali a girare il film non in ordine cronologico ma cromatico. Se volete potete leggerle qui, in un libro che spiega tra l’altro come la prima idea per Cube fosse quella di un film ambientato interamente all’inferno. Se invece volete ripassare, il film non lo trovate in streaming gratuito ma a pagamento un po’ ovunque (Tim, Mediaset, Apple, Chili). Infine, se dopo averlo rivisto vi dovesse venire la voglia di guardarvi anche i sequel, fate come ho fatto io e infilate le mani in un tritacarne: non avrete più modo di cliccare da nessuna parte, risparmiandovi così una delusione clamorosa.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo. Il link ad Amazon è impostato per far arrivare a noi una piccola percentuale di quello che spendete, senza sovrapprezzi per voi.