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L'inspiegabile sfortuna di Pacific Rim

L'inspiegabile sfortuna di Pacific Rim

Nella calda estate del 2013, l’ultima da spiantato prima di avviare una carriera universitaria degna di questo nome, al cinema arrivò un film che la critica di massa demolì, che il pubblico snobbò ma che si seppe ritagliare un posto nel cuore di una nicchia di affezionati. Sto parlando di Pacific Rim, il penultimo flop di Guillelmo del Toro.

Io la sfortuna di del Toro non l’ho mai capita. Vogli dire, parliamo di un regista che alterna sapientemente film alti a film bassi ma li dirige con la stessa mano, e da un certo punto in avanti hanno iniziato ad avere persino le stesse scenografie e la stessa fotografia. Eppure, per tantissimi vederlo con un oscar in mano è stata una sorpresa.

Per me, invece, la sorpresa fu che lo vinse per il film sbagliato.

Cronos, Mimic, La spina del diavolo sono stati film di preparazione, mentre con Blade 2 il nostro si è accodato alla Hong Kong-mania di Hollywood e, al netto di una computer grafica invecchiata come al solito malissimo, resta ancora un buon film. Hellboy, dignitosamente giocato nella categoria di “film di supereroi prima che i film di supereroi fossero cool”, estremamente anni Duemila, diremmo adesso, ma siccome è il 2004 tutto regolare, con in più un dichiarato rimando lovecraftiano.

Il labirinto del fauno, apriti cielo: la critica si accorge di lui con un film tra l’incantevole e lo stucchevole ma che consolida quella che sarà la sua estetica e il suo nucleo di affetti per il mondo sotterraneo e la mitologia. Hellboy 2 non è altro che il mondo de Il labirinto del fauno ma con dentro Hellboy che spacca tutto.

Poi esce Pacific Rim.

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Anche qui, del Toro lavora per accumulo. Un mondo sotterraneo cerca di invadere il nostro e l’umanità risponde spaccando tutto.

Il titolo è preso dalla spaccatura sul fondo dell’Oceano Pacifico dalla quale fuoriescono i mostri grossi, e al di là di questo mistico portale quantistico c’è un mondo di oscure intelligenze aliene che spingono per invadere la realtà eattraverso i Kaiju, che quindi diventano la loro manifestazione fisica nel nostro piano.

C’è tutto: c’è Lovecraft, c’è il mondo sotterraneo e c’è il botto della distruzione. Se al posto dei robot giganti avessimo avuto qualche delicata bambina pronta a entrare in contatto con queste creature demoniache, ma comunque salvifiche, rispetto alla bruttezza del mondo degli umani, il film sarebbe stato apprezzato senz’altro di più. Invece, del Toro caparbiamente porta al cinema un’altra delle sue passioni sperando di condividerla con il pubblico: i robottoni.

Come si fa non provare amore per Cherno Alpha?!

Come si fa non provare amore per Cherno Alpha?!

L’approccio di del Toro alla Materia è strano. Non sposa a pieno una delle due correnti della filosofia robotica giapponese. Gli Jaeger non sono super robot: hanno un peso, una materialità ben precisa, una meccanicità fatta di pezzi e regole. Sono prodotti in serie, con motori diesel per fibre muscolari e reattori nucleari al posto del cuore, e c’è la disperazione umana di cercare di arginare l’inevitabile con uno strumento inadeguato. E non hanno “il potere di essere una divinità o un demone” intrinseco nella natura dei super robot.

Ma non sono nemmeno real robot à la Tomino per una questione di setting e di scelta dei cattivi che, invece, sono più affini alla prima categoria. Il kaiju, nemico d’elezione, simbolo di disumanità, con la sua natura ibrida tra il biologico e l’artefatto, avatar di una minaccia che affonda le proprie radici nel passato remoto della terra, un Grande Impero Sotterraneo tipicamente nagaiano, metafora della condanna sociale delle nuove generazioni verso la vecchia che li aveva condotti alla catastrofe della seconda guerra mondiale e dell’atomica. E nagaiano è anche il finale, con l’eroe messo in ginocchio da un attacco coordinato di più nemici.

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Il film a oggi resta sicuramente un’ibridazione interessante tra due approcci opposti, e lo apprezzo anche per il piglio fortemente autoriale del regista nel far scontrare per centrotrenta minuti tutte le sue passioni.

I più smaliziati potrebbero vedere in Pacific Rim un vago richiamo al Robot Jox diretto Stuart Gordon e scritto dal veterano della letteratura fantascientifica Joe Helderman, ma è solo un’eco.

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Io non ho ancora capito cosa sia andato storto con Pacific Rim.

Nel 2021, pensare che un film che abbia robot giganti che menano mostri grossi usando una nave cargo come mazza non abbia guadagnato fantastiliardi al botteghino, perplime, specie considerando come tutti sono in spasmodica attesa del match del secolo Godzilla vs Kong (#teamGodzilla).

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Altrettanto inspiegabile è il proliferare di idee postume, che prendono l’involucro esteriore del film e ne svuotano il carapace come Cracco farebbe con la polpa di un astice. Lo stesso Pacifc Rim 2 punta tutto su un pubblico giovane e modaiolo, spingendo per un completo redesign dei mecha che, purtroppo, si amalgamo al coloratissimo anonimato del film.

La serie Netflix uscita in questi giorni è un fenomeno ancora più imperscrutabile, dal mio punto di vista.
Una roba occidentale che ammicca a della roba orientale che diventa una serie in pessima computer grafica per tornare dei binari della roba orientale di cui sopra, con un lavoro di appiattimento e di ricostruzione della decostruzione.

Vuole fare il giro, lo fa male. Per non parlare del fastidioso effetto “scattoso perchè sì” che ormai accompagna la produzione di qualsiasi anime in CG della piattaforma, che pure cerca con tutte le sue forze di richiamare l’animazione tradizionale.

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Del Toro ha passato un brutto momento con Pacific Rim, i mancati guadagni gli hanno dovuto riprogrammare tutti i progetti che aveva in mente per gli anni a venire.
Il suo film successivo sarebbe dovuto essere un adattamento de Le montagne della follia che, probabilmente, non vedrà mai la luce. Quello che invece realizzò fu una delle più smielate e dimenticabili ghost story degli ultimi anni, quel Crimson Peak scappato dagli anni Novanta e che, purtroppo, segna una definitiva svolta verso il rom-gothic. Non a caso, il suo ultimo film per il quale tutti adesso lo ricordano, e che gli ha procurato un oscar, è La Forma dell’acqua: romantico, un po’ ammiccante al “buon vecchio cinema di una volta”, un po’ Mostro della Laguna della Universal, in realtà non è altro che uno spin-off su Abe Sapience di Hellboy raccontato come La bella e la bestia.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai MOSTRI GROSSI, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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