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L’occhio di chi guarda

L’occhio di chi guarda

La percezione personale è un filtro attraverso cui passa tutto quello che facciamo, che osserviamo, che consumiamo. La applichiamo senza nemmeno rendercene conto e detta in larga misura la nostra lettura delle cose, sia quando siamo consapevoli di stare elaborando una pura opinione, sia quando siamo convinti di stare esprimendoci in termini puramente oggettivi. Perché poi, alla fin fine, c'è comunque un filtro che stabilisce quale significato diamo al valore oggettivo, che importanza riteniamo abbia, quale sia la sua natura di ingranaggio all'interno di un meccanismo più grande. Ne ho chiacchierato già il mese scorso ma questa cosa continua a tornarmi prepotentemente in faccia. Sarà la crisi di mezz'età.

Per esempio. Un pixel è un pixel. Il suo posizionamento sullo schermo è oggettivo. Il modo in cui si unisce ai pixel che gli stanno intorno è frutto di tante piccole decisioni più o meno istintive e consapevoli prese da chi quei pixel li ha piazzati lì, al fine di ottenere un effetto preciso. Quell'effetto preciso è tarato su un valore medio, dato dalla risoluzione e dal genere di schermo che, in quel momento storico, la maggior parte della gente utilizzerà per giocare. Se io sto disegnando grafica per un videogioco nel 1991, vado a studiare la composizione dell'immagine, la scelta dei colori, il posizionamento dei dettagli sapendo che la maggior parte della gente avrà davanti uno schermo a 14 pollici o giù di lì, capace di mirabolanti risoluzioni a tre cifre per tre. So che i pixel avranno la dimensione giusta, quella a cui io sto pensando, e so che la natura stessa del tubo catodico andrà a creare una resa a schermo di un certo tipo. Di contro, non lavoro pensando al fatto che trent'anni dopo la gente osserverà ancora la mia grafica su monitor LCD grandi il doppio, con risoluzioni che c'hanno una K in fondo, e che tutto questo scasserà completamente la resa visiva, pur non riuscendo a renderla comunque meno che gradevole.

Tipo, io ai due Monkey Island giocai su questo.

Questo genere di discorso è uno dei motivi per cui alcuni trovano imprescindibile l'utilizzo dell'hardware d'epoca per fare retrogaming. Se lo chiedete a me, in larga misura, sbagliano, perlomeno quando si mettono a fare gli spaccamaroni che giudicano il retrogaming altrui e puntano il dito verso chi si comporta diversamente. Perché alla fine ognuno ha i suoi filtri, le sue asticelle, le sue esigenze, le cose che apprezza e le cose che non riesce a tollerare. È personale, sacro e intoccabile, proprio perché non ha nulla di oggettivo. È oggettivo che la grafica di Castlevania: Bloodlines non corrisponda alle intenzioni dell'autore se la spalmi in HDMI su un televisore HD a 50 pollici e non usi manco il compromesso del filtro che simula le scanline. È soggettivo e assolutamente lecito non accettare questa cosa, ma lo è tanto quanto fregarsene e dire che, oh, guarda un po', a me piace, mi piace vedere i pixel belli definiti, mi piace giocare grosso. A ognuno il suo. E infatti. E infatti io, che non amo usare filtri di alcun tipo e che limito i mio consumo di grafica "catodica" a quando ho proprio voglia di sbattermi, ho improvvisamente scoperto uno scoglio enorme, giocando a Monkey Island 2: LeChuck's Revenge per Retroutcast. Mi sono reso conto che coi punta e clicca non ce la faccio.

Avevo questo sentore già da un pezzo, e infatti nei precedenti Retroutcast dedicati a quel genere di gioco ho sempre infilato una parentesi in cui commentavo la resa grafica con visualizzazione in finestra, ma in questo caso mi è proprio partito l'embolo. Mi sono reso conto che non ce la facevo, non mi piaceva giocarci con la grafica spalmata a 1080p, e mi sono messo a pasticciare con le opzioni, cercando compromessi, fino a rendermi conto che no, non mi andava bene manco la 800X600. Volevo la 640X480, la minima adottabile, che poi sarebbe quella dell'edizione su CD d'epoca. Solo così trovavo realmente convincenti le proporzioni, i dettagli, le sfumature, l'espressività. I contorni quadrettosi sparivano, le mappe diventavano bellissime, i volti assumevano un senso, tutto andava al proprio posto. Come mai questa esigenza improvvisa, proprio su questo gioco? Cosa ha sancito che per me scattasse proprio qui il momento del fastidio? Me lo sono chiesto e mi sono risposto che davanti a un gioco d'azione mi concentro su quello che faccio, non su quello che guardo, mentre un'avventura punta e clicca è statica, ti sbatte in faccia la sua grafica e la osservi a lungo. Immergerti nelle ambientazioni, nell'atmosfera, nei personaggi, nel racconto, è componente fondamentale dell'esperienza. Inoltre, quello che faccio, con un punta e clicca, è letteralmente osservare la grafica alla ricerca di elementi con cui interagire. È il gioco stesso a invitarmi ad ammirare la sua bellezza estetica. E quello, per me, è probabilmente il punto di rottura. Ma, appunto, è una questione di percezione, di indole personale, di filtro mentale.

Per esempio. Quando si discute di realismo e credibilità in un film, ognuno ha i suoi limiti personali, le cose che non tollera, quelle che tollera e quelle che neanche nota. È il motivo per cui utilizzare il realismo come metro di valutazione per un film è tanto sensato quanto cretino. Perché nessun film è realistico al 100%, tutti sono pieni di cose che non hanno alcun senso e che ci beviamo perché neanche ce ne accorgiamo o che tolleriamo perché abbiamo deciso che sono compromessi accettabili. Decidere che una cosa irrealistica specifica sia inaccettabile è arbitrario, è personale. Significa che tu noti quella cosa, quando magari altri non ci fanno caso, e che a te dà fastidio, quando magari ad altri non dà fastidio. Ed è normale che un elemento di filtro personale renda un film intollerabile, ma è cretino pretende di isolarlo ed elevarlo a difetto oggettivo incontestabile. È incontestabile che quella cosa non sia realistica, è soggettivo che proprio quella cosa irrealistica lì, e non le altre centomila, rovini il film. Questa cosa del filtro personale si tende a dimenticarla, ma torna sempre, è alla base di tutto, è il motivo per cui lo stesso film adattato dallo stesso libro può generare giudizi diametralmente opposti in base a cosa cerchi, cosa pretendi da quel lavoro di adattamento. È la base da cui nascono pipponi e conversazioni deliranti in cui si analizza ogni fotogramma alla ricerca di inesattezze e imprecisioni che alla fin fine sono nella testa di chi le cerca molto più che nel fotogramma stesso. È una roba di cui non è possibile liberarsi, perché è personale, è parte di noi, ma magari sarebbe il caso di approcciarla con maggiore consapevolezza e minore pretesa di argomentazione inattaccabile infarcita d’odio e boria. O magari sbaglio io. In fondo, anche questa mia opinione nasce da un filtro personale.

Per esempio. Una pacca sul culo è una pacca sul culo. È un atto violento, molesto, che invade lo spazio fisico personale, mentale ed emotivo altrui. È un atto sessuale. Non ci sono margini di opinione, sono dati oggettivi. Però poi c’è il filtro personale. E il filtro personale è quello che ti fa pensare che sia normale, al limite giusto un po’ “cattivello” in maniera goliardica, permetterti un gesto del genere, magari davanti a tutti, provando a strappare risate di approvazione. Del resto, io me li ricordo quegli anni Ottanta in cui queste cose erano davvero “normali”, cioè considerate un modo normale di fare umorismo e narrazione al cinema e in televisione. Il maschilismo, l’omofobia, il razzismo erano gag simpatiche, buffonate, roba portata avanti dai comici di maggior successo, che veniva normalizzata per tutti. E un filtro mentale personale da queste cose viene alimentato, supportato, infiammato, contribuendo alla convinzione che siano non solo lecite, ma normali, addirittura apprezzabili, perché divertenti, amate da tutti. Non basta quello, perché grazie al cielo di influenze nella nostra vita ne abbiamo molte altre, ma è parte di un mosaico agghiacciante, da cui si parte per alzare sempre più l’asticella del “normalizzabile”. Non tutti quelli che tirano pacche sul culo sono stupratori, ma chi è stupratore lo è anche perché agevolato da una mentalità che considera poca cosa la pacca sul culo. Immagino che la differenza fra chi poi in età adulta si è scrollato di dosso quella mentalità e chi non l'ha fatto sia piuttosto flebile, nel senso che mi sarebbero bastate due o tre circostanze diverse per essere oggi lì a scrivere commenti che grazie al cielo trovo invece agghiaccianti, per continuare a dire e fare cose che trenta, venti, dieci anni fa erano ancora “normali” e oggi mi fanno l’effetto delle unghie sulla lavagna. Però qui il dato oggettivo è fondamentale e il filtro irrilevante. Perché se io penso che fare certe cose sia normale, non sto guardando dei pixel spalmati male, sto facendo danni ad altre persone. Conseguentemente, il filtro lo possiamo anche buttare via. Una pacca sul culo è una pacca sul culo. È un atto violento, molesto, che invade lo spazio fisico personale, mentale ed emotivo altrui. È un atto sessuale. Non ci sono margini di opinione, sono dati oggettivi. Non serve altro.

Buon dicembre.

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