I musei stanno diventando dei walking simulator?
Una decina di anni fa, qua era tutta gamification.
Dopo il botto del primo iPhone, gli smartphone stavano iniziando a modificare le abitudini delle persone e le implicazioni ludiche parevano infinite. Parecchio tempo prima di Pokémon Go, giravano app che sfruttavano la geolocalizzazione per trasformare una tranquilla corsetta al parco in una fuga dagli zombi e una sosta al baretto in un check-in a tema #foodporn (era l’alba del “kaffee!”). Tutto, di colpo, era diventato “crossmediale”. Gli alternate reality game sembravano il futuro dell’intrattenimento e del marketing, e a sentire Jane McGonigal, pure l’unica opportunità in vista per salvare il mondo, tra una partita di massively multiplayer thumb-wrestling e l’altra.
Per ingaggiare il pubblico, i produttori di Lost avevano lanciato la Lost Experience, sorta di percorso a tappe sospeso tra il mondo reale e il web, mentre i siti ufficiali di film e libri si fregiavano di elementi di linguaggio dalle avventure punta e clicca. Per fare un esempio, in una delle sue prime versioni, il sito di J. K. Rowling si presentava come una scrivania zeppa di segreti da scoprire e puzzle da decifrare; pochi anni più tardi, la scrittrice britannica e il suo staff avrebbero preso le mosse da quell’esperienza per lanciare il ben più strutturato Pottermore, attuale punto di riferimento per la fanbase del maghetto.
Ma il mercato dell’intrattenimento non era l’unico a scalpitare. Anche i professionisti della divulgazione culturale, i curatori di mostre e i direttori di musei guardavano con speranza alla gamification, per superare il limiti delle lezioni frontali e delle esposizioni classiche, digitalmente ferme all’epoca dei CD-ROM multimediali.
E mentre tutto un mondo là fuori scopriva o riscopriva i videogiochi, questi uscivano dai monitor per colonizzare gli spazi dei salotti e le strade. Ovunque ci si voltasse, spuntavano casual game; Balance Board, Kinect, strumenti musicali di plastica e console portatili polivalenti la facevano da padroni, e tra una sparacchiata e l’altra gente come Marc Laidlaw o Ken Levine ragionava sulle opportunità narrative del level design, gettando le basi degli interactive drama o walking simulator, che a dir si voglia.
Oggi, a naso, mi pare che di gamification si parli un po’ meno (dico “mi pare”, perché mi baso solo su quel poco che leggo/guardo/ascolto), ma certamente non è sparita nella pratica. Semmai, si è sciolta nel tran-tran senza scossoni, si è integrata: app come Waze, Duolingo o Tinder sono immerse nella gamification fino al collo, così come lo sono i musei e le mostre più avvedute, che da qualche anno a questa parte - come raccontato da Luca Roncella in quest'intervista qua – stanno implementando il linguaggio dei videogiochi nelle nuove aree espositive, attraverso i cosiddetti serious game.
Io, nonostante me la meni tanto con la cultura e quelle robe lì, sono piuttosto sciatto in fatto di musei e non è che li bazzichi più di tanto. Eppure, qualche settimana fa sono rimasto particolarmente colpito dall’allestimento del POLIN, il Museo della storia degli ebrei polacchi, con sede a Varsavia.
Ora, la cosa davvero figa del POLIN è il taglio narrativo. Il percorso espositivo ha un ritmo pazzesco; mescola linguaggi diversi come cinema, musica, teatro, illustrazione, fumetti, scenografia, fotografia, videogame, eccetera, spuntando quasi sempre la declinazione più popolare e accessibile. La Core exibition parte con la rivisitazione mitologica dei primi insediamenti ebraici in Polonia e da lì si lancia in una galoppata lungo i secoli densa di argomenti, spiegazioni e gimmick di ogni genere. Ovunque c’è un sacco di roba da guardare, da toccare, da scoprire, da leggere, da costruire e da ascoltare. Pasticciando con i touch screen integrati nelle scenografie, si possono sfogliare i principali testi della tradizione ebraica, esplorare carte geografiche o percorrere l’albero della vita Sefirah dopo Sefirah, scoprendo tra l’altro che è incredibilmente simile al tabellone del gioco del mondo.
L’audioguida è fondamentale per non perdere la bussola, ma la tentazione di divagare è forte. Io, per dire, gironzolando lungo la ricostruzione di una stradina del primo Novecento ho deviato verso un piccolo cinema, dove proiettavano un film polacco in bianco e nero, come nella migliore tradizione fantozziana. A seguire, sono passato da un caffè per sfogliare giornali e riviste d’epoca, dopodiché sono finito in un club di ballo.
Costruita per rievocare la vita cittadina della Seconda Repubblica di Polonia e celebrare l’espressione “af der yidisher gas” (nella via ebraica), se lo chiedete a me, la strada multimediale è il fiore all’occhiello dell’intero percorso espositivo del POLIN. Nella sua ricchezza, centra piuttosto bene la vivacità culturale della Polonia tra il 1918 e il 1939, e quasi quasi ci si dimentica di quello che è venuto dopo, un po’ come quando si rilegge un libro o si riguarda un film a distanza di anni dall’ultima volta.
Eppure, basta girare l’angolo per lasciarsi alle spalle la colorata stradina e trovarsi di colpo a Mordor. L’arco espositivo dedicato agli anni bui della Seconda Guerra Mondiale, a partire dall’invasione della Polonia da parte della Germania nazista del 1939, è probabilmente il meno spettacolare dell’intero museo, e ciononostante quello più denso e toccante. I curatori, come dei narratori consumati, hanno saputo accordare il grande con il piccolo, la Storia con la disgregazione della vita di tutti i giorni. Ma soprattutto, sono riusciti a far emergere dalle atrocità dell’Olocausto la forza e l’eroismo di coloro che hanno provato a ribellarsi ai Nazi con l'astuzia o con le armi (e che qualche volta ci sono pure riusciti).
L’esito del percorso è per certi versi consolatorio, pur senza perdere peso o mancare di rispetto, e personalmente mi sono congedato con un vago senso di speranza.
Durante tutta la visita, mentre da una parte partecipavo con trasporto alla componente emotiva del viaggio, dall’altra venivo accolto dalla forte dimensione ludica dell’allestimento. Mi spiego: come ho già detto, il percorso del POLIN è il frutto del dialogo tra un sacco di media diversi; ci sono anche i serious game, sì, ma non rappresentano che una parte dell’esperienza. Eppure, riflettendo da giocatore sull’allestimento nel suo insieme, la voce dominante mi è parsa quella del game design.
In mezzo a quelle stanze e ai corridoi così ricchi di opportunità e interazioni, ho avuto la netta sensazione di trovarmi all’interno di un walking simulator o nel segmento narrativo di uno sparatutto in soggettiva. Toh, tipo nella parentesi museale di BioShock Infinite (capisco che è un esempio un po’ del cavolo, ma è quello che rende meglio l’idea).
Proprio come in un videogioco, la “campagna principale” viene agevolata senza troppe divagazioni, ma è anche vero che una grossa porzione di contenuti se ne sta lì in disparte, nascosta tra le pieghe del percorso, e per acchiapparli è necessario esplorare un po’ tra touch screen, cassetti, installazioni e riproduzioni varie. Conseguentemente, la durata dell’esperienza (la “longevità”) è assolutamente variabile: io, per esempio, avevo fatto conto di trascorrere al POLIN non più di un paio d’ore, ma la narrazione ha finito col risucchiarmi per un’intera giornata, e anche così non mi è riuscito di platinare la struttura.
Poi, per carità, pur restando dell’idea che ci sia in ballo una convergenza più che un intento preciso, magari sovrainterpreto. Resta che negli ultimi tempi, quando si parla di videogiochi, la chiave di lettura che preferisco è proprio quella spaziale. Dopo la sbornia di saggi legati alla semiotica, alla mitologia e alla narrazione, sono sempre più in sintonia con chi, per descrivere e definire il medium, fa ricorso al paragone con labirinti o con i parchi a tema, piuttosto che con il cinema e la televisione.
Volendola mettere giù a grana grossa – l’unica che mi riesce di pelare – i videogiochi sono sì dei testi disposti all’interazione e imbottiti di contenuti multimediali, ma pure dei luoghi delimitati da confini, sistemi di regole ed eventualmente obiettivi, più o meno come i parchi di divertimento e i più moderni percorsi espositivi.
Così, se in un gioco come Gone Home la chiave per gestire al meglio la distribuzione dei contenuti e impostare il ritmo è probabilmente il level design, lo stesso vale per un museo. Sotto questo aspetto, l’allestimento del POLIN è decisamente efficace; fluido e flessibile, in grado di adattarsi al visitatore più frettoloso e di soddisfare al contempo quello più esigente (o semplicemente con più tempo da ingannare). Il level design procede in senso orizzontale, ma ogni metro di esposizione nasconde possibilità verticali pressoché infinite.
Non ho trovato la stessa efficenza, per fare un paragone a tema, nel percorso proposto dall’ex fabbrica di Oskar Schindler. Nonostante serva contenuti simili a quelli del POLIN attraverso i medesimi linguaggi (di nuovo: testi, fotografie, postazioni interattive, serious game, filmati, eccetera), la mostra permanente dedicata alla Cracovia occupata dai Nazisti tra il 1939 e il 1945 pecca per ritmo, distribuzione dei testi e ergonomia.
La narrazione, per quanto affascinante in sé, non si intreccia come si deve con lo spazio e finisce col perdere parte della sua potenza.
Di contro, sempre a Cracovia, mi è parsa particolarmente riuscita la musealizzazione della farmacia di Tadeusz Pankiewicz. Nonostante gli spazi risicati - soprattutto se paragonati a quelli del museo di Varsavia - il “level design” della farmacia ha una densità altissima (un po’ come il vecchio Zelda per Game Boy), e nel raccontare la storia dell’eroico farmacista polacco Tadeusz Pankiewicz, che rischiò la vita per offrire assistenza agli ebrei del ghetto, sceglie una via non lineare. Pensata come una sorta di scrigno delle meraviglie, la “farmacia sotto l’aquila” (Apteka Pod Orłem) propone due diversi livelli di fruizione. Da un lato, c’è la ricostruzione degli spazi originali, con tanto di schermi alle finestre dove scorrono ricostruzioni dell’adiacente piazza degli eroi del ghetto (plac Bohaterów Getta), così come appariva ai tempi dell’occupazione.
Dall’altro, c’è il percorso nascosto: proprio come in un’avventura punta e clicca o nel suddetto sito della Rowling, molti elementi dello scenario come cassetti, scaffali o teche sono interattivi e ospitano al loro interno foto, documenti, quaderni o filmati. Il visitatore può scartabellare dove gli pare, seguire i percorsi informativi che più lo affascinano, oppure limitarsi a visitare la farmacia per quello che è (o che era).
In chiusura, dopo aver osservato le analogie tra il linguaggio dei videogiochi e l’organizzazione dei contenuti nei musei, ho provato a invertire il flusso. A ragionare sulle possibilità espositive nei videogiochi. Le prime cose che mi sono venute in mente sono state alcune esperienze in VR che ho sperimentato di recente, ma soprattutto il Discovery Tour di Assassin’s Creed Origins, che ho trovato sfizioso, OK, ma pure un po’ ingombrante.
Così, a tentoni, ho la sensazione che la semplice riproposizione digitale dei percorsi non sia la via più proficua per i “video-musei”. Trovo quasi più sensato prendere la cosa di traverso, ossia lavorare sul tempo e sugli aspetti di linguaggio propriamente interattivi, anziché sullo spazio, scegliendo di sollecitare o colpire l’utente piuttosto che imbottirlo di nozioni.
Se guardo alla scena affine dei docu-game, ad esempio, spesso i prodotti più centrati sono pure quelli più piccolini, nei quali gli autori preferiscono lavorare di sintesi e metafore, anziché dilungarsi in nozioni. Insomma, se lo chiedete a me, vale sempre il vecchio adagio secondo cui in un videogioco, piuttosto che spiegare, è meglio mostrare; e piuttosto che mostrare, è meglio lasciar fare.