Parasite Eve e la PlayStation moddata | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
A onor del vero il titolo esteso sarebbe stato “Parasite Eve e la PlayStation moddata per andarvi in c…”. Ma infine siamo dei signori, e il rancore non ci si addice (lanemedichittemuort’, SquareSoft, lanemedichittemuort’!!).
Riavvolgiamo.
L’anno è, boh, credo il 1999. Ho sicuramente fatto il Servizio Civile, dato tutti gli esami universitari e me la sto prendendo comoda, come il pirla che sono, a finire la mia tesi (trecento pagine di divertita inutilità, bibliografia compresa).
Nel frattempo, per darmi un contegno, mi guadagno da vivere arrotondo la paghetta che quelle anime sante e pazienti dei miei genitori (ciao Ma’, ciao Pa’) continuano a corrispondermi lavorando come commesso in un negozio di videogiochi. Come, a quanto sembra, praticamente chiunque sia poi finito a scrivere da queste parti.
Il negozio è di proprietà di un’educata signora che, come tutti coloro che hanno avuto la fortuna di lavorare nel periodo del Miracolo Economico, possiede diverse proprietà messe a reddito. Ovviamente lo scarto generazionale tra lei ed i videogiochi è tale che rapidamente passo da “commesso” a “gestore”: vengo lasciato solo in negozio ed assolti i doveri di decoro e contabilità, quando non ci sono clienti, scribacchio la mia tesi. Ma soprattutto, la pausa pranzo (due orette) viene liquidata con una pizza al taglio presa nella spettacolare panetteria confinante e passata a platinare giochi sulla PS1 in dotazione per le demo.
E’ su quella macchina che completo le mie due run e mezza su Final Fantasy VII (per un totale di trecentoventi ore circa), è su quella macchina che “risuona il mio barbarico SUKA sopra i tetti del mondo” (cit.: L’attimo fuggente) quando una derapata controllata lunga un chilometro sull’erba bagnata di Central Park mi permette di staccare i nugoli di inseguitori e completare l’ultima missione di Driver.
E’ su quella macchina, con il suo modchip sgamuffo saldato alla scheda, che inserisco un gioco vendutoci come usato da un cliente affezionato. Un gioco di importazione a proposito del quale leggevo ogni articolo che le riviste di settore mandavano in stampa, obbligate dal successo di Final Fantasy VII a recensire qualsiasi cosa la SquareSoft pubblicasse, fosse anche il bilancio semestrale. E di cui cercavo avidamente in rete le illustrazioni a mano di Tetsuya Nomura.
Un gioco che arrivò in quel negozietto scollegato da qualsivoglia circuito di importazione grazie ad un cliente appassionato che passava intere ore, in orari lavorativi, a chiacchierare di videogame per poi comprarne per diverse centinaia di “milalire” (moneta arcaica antecedente all’euro, alcuni di voi giovinastri manco sanno di cosa parlo) lasciando in contempo il suo usato senza mai contestare la valutazione (gesto di signorilità che più avanti ho fatto mio).
E quando sentii partire l’iconico motivo Primal Eyes della geniaccia Yoko Shinomura sulle immagini dell’intro, per me fu come fosse contemporaneamente Natale e Capodanno de Duemila (anche se probabilmente era, tipo, maggio del ‘99).
Perchè, non giriamoci intorno, Parasite Eve era una BOMBA senza senso.
A malapena ci eravamo ripresi dallo shock di Final Fantasy VII e SquareSoft, dopo aver rilanciato facendo fare un ulteriore balzo di realismo ai personaggi con Final Fantasy VIII, raddoppiava il carico passando da personaggi “fighetta” a personaggi FIGHI.
Dal momento in cui la vediamo apparire in abito da sera nera con spacco killer, diventa impossibile per il giocatore togliere gli occhi da Aya Brea, un miracolo di espressività e carisma nelle poche e semplici linee di Tetsuya Nomura che lima il personaggio al limite per regalarci la più classica “hidden badass”: una normale poliziotta del NYPD che, con l’eccezione delle serate di gala, veste casual poco appariscente e che, come un John McClane a caso (ma con i superpoteri), tirata dentro in un casino più grosso di lei spara, mena e cerca di non schiattare con l’espressione di chi non riesce davvero a credere che una festa di Natale potesse andare tanto in merda.
E, diciamolo, SquareSoft dopo la roboante dichiarazione di aver creato il primo Cinematic RPG va “all-in”, e in quanto a “mandare le cose in spettacolarmente in vacca” non si risparmia davvero niente.
Butta dentro ogni incubo, leggenda metropolitana, paranoia ipocondriaca, disastro scenografico venga in mente.
Si inizia con una strage all’Opera con gente in fiamme che precipita dalle balconate mescolando urla e acuti di soprano, si prosegue con il “coccoddrilllo bianco delle fogne di New York” (cit. Miocuggino), un T-Rex zombie, un combattimento sul calesse di Ghost Rider, Harrier che sparano missili in pieno centro urbano (pochi mesi prima del Godzilla di Emmerich!!) e si va a chiudere con portaerei e corazzate che si sdrumano contro un titanico feto demoniaco.
Aya evita corpi carbonizzati, abomini mutanti, kaiju di muco. Salta via da palazzi, carrozze, elicotteri, navi un attimo prima che esplodano e noi con lei, bestemmiando dietro i mitocondri, fottuti simbionti che ci portiamo dentro e che, dopo aver ordito tutto ‘sto casino, se la godono con il sorriso serafico e materno di Melissa Pearce.
A un character design in stato di grazia, una colonna sonora che resta tra le migliori SquareSoft di sempre, una sceneggiatura action horror ad orologeria e grande senso dello spettacolo fracassone, Squaresoft abbina poi tutta la sua maestria nel gameplay.
L’ABT (Active Battle Time) dei Final Fantasy viene abbinato a un combattimento semi-dinamico con il personaggio che si muove assieme ai nemici in arene circolari, cercando di sfruttare le distanze per curarsi, ricaricare le armi e poi colpire; il crafting, uno dei gioielli della loro corona, viene questa volta applicato ad armi da fuoco, potenziabili, smontabili, distruggibili in un procedimento prova ed errore mirato ad ottenere il miglior abbinamento possibile con le abilità concesse dalla misteriosa “Parasite Energy”, potere che solo Aya e Melissa sembrano condividere, senza una spiegazione apparente.
A tutt’oggi, passati più di vent’anni anni, non riesco davvero a capacitarmi che un gioco del genere non venne distribuito in Europa (nonostante fosse stato localizzato in inglese) e, sopratutto, che in un momento come questo in cui vengono fatti remake e remaster pure dei calzini sporchi, la serie resti ferma al bellissimo terzo capitolo.
E mi convinco che, sì, santa PlayStation da dimostrazione con il modchip sgamuffo saldato a scheda per far girare i dischi di importazione e quelli “di backup”.
Che la pirateria è un reato, ma non distribuire capolavori è un crimine.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Meglio tardi che mai”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.