Fate/Stay Night: io i giapponesi non li capisco (2) | Racconti dall’ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Diciamola come va detta, mentre con Tsukihime era lecito avere il dubbio che molti dei miei affezionati lettori (le migliaia e migliaia di affezionati lettori, che umilmente ringrazio) non sapessero di cosa stessi parlando e, quindi, meritasse una trattazione spoiler-free, con la loro opera successiva: Fate/Stay Night non mi farò questi scrupoli.
Se anche solo parzialmente vi concedete passioni da otaku (e se leggete questo articolo, lo fate) è IMPOSSIBILE che non conosciate Fate/Stay Night e le storie dietro ai suoi “testimonial” più noti.
E questo ci porta già subito alla raison d’etre di questa Cover Story, visto che Fate/Stay Night e le storie dietro ai suoi “testimonial” più noti le conoscete NONOSTANTE il fatto che a TypeMoon, la casa di produzione fondata dal duo Kinoko Nasu (sceneggiatore e game designer) e Takashi Takeuchi (character designer e art director), non interessasse NULLA farvele conoscere.
Ma niente, eh? Zero! Zilch! 何もない!
Anticipando le conclusioni (così me le tolgo dalle scatole e posso solleticare il mio ego ammorbandovi su quanto adori questo titolo) vi basti pensare che, ultimo di una serie di spin-off di successo, lo strategico-casual “PpW” (Pay per Waifu) Fate Grand Order uscito nel 2015 su piattaforma mobile (e cabinato SEGA reperibile solo in Giappone, ovviamente), nel 2019 sfondava il tetto dei quattro miliardi di dollari (Quattro. Miliardi. Di. Dollari) in transazioni e tutt’ora viaggia alto nella classifica incassi dei giochi mobile.
Ebbene: Fate Grand Order non è accessibile su server Europei, solo USA e oriente.
Capite cosa intendo dire quando dico che i giapponesi non li capisco?
E anche qui la causa evidente è la convinzione che Fate/Stay Night e la sua consistente eredità “non potesse interessare ai gaijin” / “i gaijin non lo avrebbero capito”. Vogliamo verificare?
La Visual Novel FSN è ambientata nella fittizia città di Fuyuki (Giappone) dove si tiene un torneo organizzato tempo addietro da tre famiglie di maghi, i Tohsaka (giapponesi), i Matou (giapponesi di origine russa) e i Von Eizenbern (er…), adepti di teorie magiche piuttosto esotiche (zero shintoismo, no taoismo, niente elementalismo) ed estremamente “razionaliste”, con lo scopo di evocare un artefatto di immenso potere: il Santo Graal.
Notoriamente giapponese.
Il torneo, che prevede la partecipazione di sette maghi, detti Master, ha sempre almeno un contendente inviato dalla prestigiosa scuola/congrega della “Torre dell’Orologio” sita a Londra (er… Giappone?) ed è arbitrato da un osservatore neutrale appartenente alla Chiesa Cattolica. Giapponese.
Concorderete con me che è tutto troppo esotico e alieno alla nostra quotidianità.
Volendo essere onesti, se c’è una cosa tipicamente giapponese, al netto della location scolastica con i suoi club, della casa tradizionale del protagonista (due love interest su tre vivono, invece, in case di solida architettura e arredamento occidentale, a testimonianza dei gusti delle giapponesissime famiglie di maghi) e della colazione preparata dal casalingo protagonista, questa è l’allegra cialtronaggine con cui vengono concepiti i Servant, uno dei pilastri su cui si fonda il carisma di quest’opera.
I Servant, strumenti dei maghi nella lotta all’ultimo sangue per ottenere il Santo Graal (“Sainto Graaru”, così ci ricordiamo che è giapponese), sono evocazioni di altissimo livello rese possibili dalla “immanenza” del Graal non ancora materializzato, e sono incarnazioni di grandi personalità dell’epica umana. Che si abbia di loro una qualche testimonianza storica (Re Artù, Cu Chulainn, Gilgamesh, Medea, Kojiro Sasaki, Hassan-i Sabbah) o puri miti (Ercole, Medusa) basta che le loro gesta abbiano trasceso il tempo, dal passato fino al futuro, per essere candidati a divenire Servant ed inseriti nelle sette “Classi” di eroi che si daranno battaglia.
Ebbene, Re Artù (classe: Saber, maestri di spada insuperabili nel corpo a corpo) è una bionda, esile, educatissima ed inflessibile bella ragazza che in battaglia veste un corpetto a piastre sopra un abito che è la perfetta crasi tra una divisa scolastica da scuola privata e una castigata divisa da cameriera.
E il protagonista se la bomba giace biblicamente con lei nel corso della prima route.
A posto così, GG, possiamo chiudere l’internet.
Odo ora le vostre lamentele: “Ma no, ma sei bastardo! Ma ci hai spoilerato il segreto fondamentale della prima route di tre!”.
A parte che, sì, vero, vi avevo pure avvertito che lo avrei fatto e ve lo meritate visto che stiamo parlando di un gioco del 2004 da cui sono stati tratti un manga, tre serie animate e tre film, un romanzo prequel che a sua volta è diventato una serie animata (e migliaia di migliaia di fumetti amatoriali porno) e, insomma, se non ne avete visto mezzo ma vi interessate di anime e manga una domanda dovreste farvela, ma in realtà non è un problema.
Sapere anche da subito chi sono i Servant, anzi sapere da subito l’intera storia di tutte e tre le route: Fate, Unlimited Blade Works e Heaven’s Feel, non potrà compromettere in nessun modo il piacere di fruire del racconto.
Fate/Stay Night è uno dei fantasy “almost-adults” più belli su cui vi capiterà di mettere le mani a causa del puro, indiscutibile, concretamente misurabile “manico” dei suoi autori.
Kinoko Nasu in questa terza opera completa il “nasuverse” e relativo, particolare, misticismo razionalista privo di contraddizioni, espandendo il concetto introdotto in Kara no Kyoukai e ripreso marginalmente in Tsukihime e facendo della “Origine di Tutto” un vero e proprio super-inconscio collettivo che permea e plasma la materia stessa al punto che carisma e notorietà diventano potere magico. Dopodiché, sbattendo le sue dimensioni artistiche sul tavolo con un tonfo avvertibile, procede a distribuire carisma ai personaggi in modo che la loro potenza non sia neanche lontanamente messa in discussione.
Le tre protagoniste femminili, la Servant Saber, la maga avversaria Rin Tohsaka e la cheta amica di scuola/aspirante fidanzata senza speranza Sakura Matou, crescono dentro allo spettatore ben più e ben oltre che per il puro essere perfette esponenti di diversi feticismi. L’evolversi della narrazione sulle tre diverse route ed il mutare dei punti di vista porta poi ad affezionarsi anche alla procace e inizialmente defilata Rider e a non riuscire ad odiare completamente la tragica Caster.
I personaggi maschili tengono il passo (ma, diciamolo, raramente dominano) titaneggiando il giusto e rinnovano la fede, di nuovo estremamente razionalista, di Nasu nel fatto che l’espressione di un’Etica incrollabile porti se non a cancellare un giudizio morale, almeno a sospenderlo.
Forse l’unico punto debole risiede proprio nel portatore del punto di vista dello spettatore: il protagonista Shiro Emiya.
Se infatti in Tsukihime Shiki Tohno era un “Hidden Badass” fatto e finito ed immedesimarsi in lui era un vero piacere in virtù di idee chiare ed un’etica priva di compromessi, Shiro inizia come il più banale “Normale Studente Giapponese” da shonen: coinvolto in una cosa più grande di lui, per buona parte della narrazione si aggrappa ad una morale “ereditata” e fatta propria con la convinzione del bambino orfano di padre.
Intendiamoci, questo è ovvio e necessario sia al normale “percorso di formazione dell’eroe”, sia a celare una grossissima sorpresa (questa non la spoilero, non sono così bastardo), sia anche ad evitargli di vincere subito il torneo eliminando con una botta di culo l’antagonista più pericolosa. GG di nuovo e arrivederci.
Ovvio, necessario ai fini dello sviluppo, ma fonte di una certa frustrazione e di alcuni meme ormai sedimentati nel web.
Tutto questo viene retto in maniera magistrale da Takeuchi che ormai evidentemente sicuro dei propri mezzi riesce ancora di più nell’impresa di fornire una caratterizzazione che calzi e contenga l’ingombrante carisma dei personaggi di Nasu, utilizzando un tratto che in qualsiasi altra situazione sarebbe stato “anonimo” e “banale”.
La maggiore disponibilità di mezzi permette a TypeMoon di dotare questa seconda opera di una vera e propria colonna sonora con addirittura una intro animata da professionisti; eppure nonostante fosse probabile sapessero dell’interesse riscosso al di là del mare da Tsukihime, anche questa volta fu l’eroico gruppo MirrorMoon a farsi carico di una traduzione clandestina che non può non aver contribuito ad alimentare un franchise sterminato e quasi ridicolo da spiegare.
Un franchise che vi consiglio di fruire a partire da questa prima, seminale, opera che secondo i suoi creatori “non potete capire”.
Gli voglio bene, ma io i giapponesi non li capisco proprio.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Meglio tardi che mai”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.