Point Break, dove s'infrange l'onda degli anni Ottanta
Il 1991 è stato un anno molto importante per la storia del cinema. Prima di tutto in via della mia nascita, dopodiché perché il genere d’azione, proprio in quel periodo, compie un importante passo in avanti emancipandosi dagli anni Ottanta; ai quali va comunque dato merito di averlo sciolto da tutti quei temi drammatici oltre che dalle implicazioni morali del decennio precedente.
L’azione targata eighties era figlia dell’edonismo raeganianao, con gli eroi americani buoni che devono sporcarsi le mani in nome di un’ideale più alto, spesso aggirando le pastoie della legge e della burocrazia. Una narrazione positiva e vitale che ha regalato al mondo del cinema eroi senza sfumature, vincenti per diritto divino anche quando abbozzano, quando si umanizzano e sanguinano; un racconto dove tutti i proiettili a segno dei cattivi sono ferite di striscio.
Ancora, gli Ottanta sono stati gli anni della Guerra Fredda, di Ronnie Rambo, di Rocky che sconfigge il comunismo. Anni in cui il boom economico e il benessere diffuso facevano credere che all’America fosse tutto concesso: non è mica per caso se una mattina ci siamo svegliati e abbiamo iniziato a vivere nella nostalgia di quel decennio.
Ma, come tutti i bei sogni, finiscono, e la sveglia la fanno suonare gli anni Novanta.
La guerra fredda è finita, la minaccia sovietica non fa più da collante politico all’unità nazionale; una nuova generazione di autori cresce maturando esperienze nuove e trova i vecchi modelli inadeguati a raccontare la crescente complessità del presente.
Point Break arriva, appunto, nel 1991 per prendere gli stereotipi dell’action canonizzato fino a quel momento e smontarlo pezzo a pezzo.
Non è un caso, quindi, che i cattivi siano mascherati da ex-presidenti, come non è un caso che il capo della banda abbia la fazza di Ronald Reagan. Una maschera che, se vogliamo, nasconde un’identità ancora più inquietante: quella di Patrick Swayze. Il ballerino di Dirty Dancing, il leader della resistenza che si sacrifica per la vittoria degli ideali americani contro l’invasione comunista in Alba Rossa e che, all’improvviso, diventa cattivo.
Chiude un circuito e lo manda in corto.
Gli anni Ottanta e l’edonismo come una droga di cui i Novanta sono la scesa; uno stile di vita insostenibile all’insegna del sogno americano urlato, che già De Palma in Scarface aveva tratteggiato con connotazioni negative, all’improvviso presenta il conto.
Lavorare tutto il giorno in ufficio per fare soldi è inconciliabile col godimento della vita alla ricerca della grande onda; molto meglio un lavoretto stagionale collaudato: rapine in banca veloci, mirate, pulite, nessun morto e poi via, dietro alle maree.
Bodhi e la banda degli ex-presidenti vorrebbero essere “la reazioni al sistema, il sistema che uccide lo spirito dell’uomo, la reazione a quei morti viventi che strisciano nelle loro infuocate bare di metallo.” Eppure, non sono i protagonisti di Un mercoledì da leoni, non aderiscono alla controcultura, non sono hippy o socialisti. Sono la contrazione dopo l’espansione, il prodotto irrazionale del decennio precedente e che non trova più il suo posto, se non nel crimine.
Nell’altro angolo del ring, la legge.
Lo avessero girato sei, sette anni prima, Point Break film sarebbe stato il classico buddy movie con il giovane e dinamico di turno e il burbero veterano. E per un po’ il film te lo fa anche credere, che le cose procedano in quella direzione: il Johnny Utah di Keanu Reeves è ex giocatore di football universitario idealista che si scontra, fino a trovare un punto d’incontro, con il burbero Gary Busey.
Il problema è che il veterano è quasi un paria, a causa delle sue teorie “irrealistiche” (spoiler: ha ragione lui), sopravanzato dalla statica mediocrità burocratica dei colleghi dell’FBI; il direttore della sezione investigativa di Los Angeles non solo la reiterazione dell’urlante commissario di polizia che Michael Bay si divertirà a parodiare in Bad Boys, ma pure uno stronzo patologico. A un certo punto parte il love interest che fa da gancio per l’infiltrazione, forse l’elemento più canonico del canovaccio.
Il rapporto di amicizia che si instaura tra Johnny e Bodhi non è tanto legato a una comunione di ideali; semmai, il surfista-rapinatore mette in crisi le certezze del giovane poliziotto nei confronti di un quadro istituzionale deprimente, che genera sfiducia. Il distintivo buttato nella sabbia dietro un’onda dalle dimensioni colossali è lì per dirci quello.
Tutto questo viene raccontato da una di migliori sodalizi artistici tra moglie e marito della storia del cinema: Kathryne Bigelow alla regia, James Cameron come produttore. Girato con uno stile à la Tony Scott, tra spiccato gusto per l’azione, per il dinamismo, e una fotografia livida che annega tutto nei mezzi toni e che avrebbe fatto felice Michael Mann.
A riguardarlo oggi, Point Break non è invecchiato di un giorno e aspetta solo che l’onda lunga della nostalgia investa gli anni Novanta per tornare sulla cresta dell’onda.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Keanu Reeves, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.