Racconti dall'ospizio #182: Una lunga strada esperienziale verso Pokémon Stadium (2)
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Pokémon è sempre stato un videogioco, per tanti, ma non per tutti. Non lo è stato, almeno in principio, per moltissimi nati durante gli anni ’90: Pokémon era infatti, principalmente, un cartone animato, di quelli che andavano in onda nel prime time dell’infanzia italiana, ovvero alle 16:00 circa, sul canale di riferimento per chi avesse più di cinque e meno di dodici anni, ovvero Italia 1. Ricordo che ci fu una grossa campagna promozionale sulla rete in questione, con spot eclatanti a spingere quello che sarebbe stato “l’evento del nuovo millennio” – anche se, ma magari ricordo male, questo claim fu più o meno riciclato anche per un altro cartone animato che debuttò su Italia 1 nello stesso periodo, fra la fine del 1999 e l’inizio del 2000, ovvero Futurama. E che sarà mai, ‘sto Pokémon? Principalmente un cartone animato, appunto, e di quelli creati ad hoc per piacere a quel target cui faceva riferimento proprio Italia 1, ma anche tantissimo merchandising correlato: pupazzetti, figurine, carte da gioco, giocattoli, bambolotti, adesivi, zainetti, magliette, caramelle… C’era veramente di tutto.
Tutte le scuole elementari italiane di inizio millennio furono contagiate dal virus dei Pokémon: le maestre più fortunate osservarono un semplice cambio della moneta corrente, con la figurina di Charizard che superò in brevissimo tempo il valore di quella col faccione di Alessandro Del Piero – un cambio di valuta, per molti, anche più traumatico del passaggio dalla lira all’euro. Le più sfortunate, invece, si sentirono rispondere un bel ‘Pikachuuuu’ alla domanda “qual è il fiume più lungo d’Italia?” (tratto da una storia vera). In realtà, io e la maggior parte dei miei amichetti della II B ignoravamo completamente che l’anima dei Pokémon non stesse sul tubo catodico. Lo scoprii da vicino l’estate seguente, quando per le vacanze arrivò in Calabria, direttamente da Bollate, mio zio Antonio, seguito dai due figli e dalla nuova compagna, anch’essa divorziata e con in dote due gemelle. Ero esaltatissimo, ma per gran parte del tempo non mi cacarono manco di striscio. Non loro, i genitori, ma i figli, che forse mi trovavano troppo piccolo per avere un qualche tipo di dialogo ma non abbastanza per potermi coccolare ed esaltarmi come invece facevano con mia sorella, di quattro anni più piccola. Vedevo che stavano sempre davanti al Game Boy, come quello che mi regalò un altro mio cugino anni prima, ma era diverso: anzitutto, era decisamente più piccolo, meno ingombrante e con colori sgargianti al posto di quel grigio che trovavo, a dir la verità, un po’ anonimo. E poi collegavano questo filo, fra i loro Game Boy, che mi faceva sospettare che non stessero giocando a quel Tetris che a me stancò dopo non molto.
Compresi dopo non molto il motivo: c’avevano i Pokémon, dentro i Game Boy. Allucinante. Certo, la grafica era un po’ così, senza colori e senza tre dimensioni, però fu una vera svolta: esistevano anche i videogiochi dei Pokémon; me lo potevo aspettare, ma non riuscivo comunque a crederci. A settembre, quando ripartirono, il chiodo fisso che avevo in testa era uno solo: trovare il gioco dei Pokémon per Nintendo 64, con la grafica bella, di quella figa per davvero. Nel mentre, la voce dei Pokémon videoludici si sparse, e a ottobre iniziò la caccia all’incarnazione dei propri sogni: Pokémon Stadium, con tutti i 149 Pokémon (+2) disponibili, coi poligoni, su Nintendo 64. Proprio la console che avevo io, solo io, e che ho sempre amato, seppur in modo schizofrenico, invidioso di tutti gli altri, quelli che avevano le PlayStation modificate e potevano avere quanti giochi volevano, mentre io dovevo accontentarmi di massimo due giochi all’anno, perché “Natalino, nel Nintendo non ci stanno i dischi, ma le cassette, e quelle non le puoi mica trovare dal marocchino che passa in spiaggia d’estate”. Su PlayStation, tuttavia, di Pokémon neanche l’ombra, e così finalmente tutti avrebbero potuto invidiarmi, con questo gioco incredibile, Pokémon Stadium, con l’immagine sul retro della copertina in cui si vedeva Blastoise schizzare acqua e mamma mia, immaginati l’esaltazione, ma per davvero, di poter veder volare un Pidgeot alla velocità della luce. Sarebbe stato mio, semplice: bastava rompere le palle ai miei genitori fino allo sfinimento, perché tanto un gioco a Natale me lo regalavano sempre, quindi perché non prendermi proprio quello che desideravo?
Perché invece costava troppo, o almeno credo. Le uniche copie arrivate da Bruzzese, il giocattolaio di riferimento dalle mie parti, erano quelle con in bundle il Transfer Pak, uno di quegli aggeggi da attaccare sotto il controller del Nintendo 64. Non sono sicurissimo del fatto che questo bundle costasse più del normale, ma fatto sta che alla fine mi padre non lo acquistò: prese invece Pokémon Snap, “ché tanto, un Pokémon vale l’altro”. E invece no, ma manco per niente, perché Pokémon Snap era questo gioco assurdo in cui i Pokémon li fotografavi, e io, invece, volevo farli combattere. Lo sgomento della terribile scoperta fu attenuato unicamente dalla consapevolezza di essere ancora in tempo per metterci una pezza: avevo infatti sgamato, intorno ai primi di dicembre, il posto dov’erano riposti i regali in attesa di essere scartati per la vigilia. La tentazione di darci un’occhiatina fu troppa, e meno male. Non era ancora troppo tardi, ero ancora in tempo per prendere Pokémon Stadium. E invece no, finiti.
“Sono arrivate solo due copie e sono andate via subito, mi dispiace”
“Ma non se ne può ordinare un’altra?”
“Purtroppo no: siamo sotto le feste e il gioco era disponibile in quantità limitatissima. Però, se volete un consiglio, potete prendervi questo, al posto di Pokémon Snap”
‘Questo’ era un Game Boy Color verde pisello, bellissimo. E con dentro uno fra Pokemon Rosso, Blu o Giallo – scelta ricaduta su quest’ultimo, l’unico a non essere in possesso dei miei cugini, tiè. Non credo che il prezzo di Pokémon Snap e quello del bundle Game Boy+Pokémon Giallo fosse lo stesso, ma mia madre lo acquistò comunque, rovinando quella sacra aura della sorpresa natalizia che lei stessa alimentava di anno in anno e avendo, una volta tornati a casa, una delle solite discussioni con mio padre sui soldi eccetera. Il 25 dicembre fu, in ogni caso, un giorno felice: l’inizio di quella che sarebbe stata per me una lunghissima convivenza con il mondo dei Pokémon, interrotta con rammarico subito dopo Pokémon X: sei generazioni dopo, senza mancarne neppure una. Ma questa è un’altra storia.
Mentre Pokémon Stadium? Arrivò comunque, ma il Natale seguente. Fra le tante nevrosi che caratterizzano da sempre la mia esistenza, c’è quella di stilare programmi anche a lunghissimo termine. In questo caso, il piano era quello di approfittare della seconda generazione dei Pokémon, appena arrivata anche in tivvù, per mettersi al passo, e comprare l’aggiornamento che sarebbe, ovviamente, arrivato anche per Pokémon Stadium. Misi così le mani su Pokémon Stadium 2 il Natale del 2001, questa volta specificando tutto fin nei minimi dettagli, e fu un giorno felice, anche quello, ma meno di quello che mi aspettassi. Più di duecento Pokémon disponibili, una cafonissima cartuccia dorata sul lato frontale e argentata su quello opposto e, soprattutto, la possibilità di controllare una versione poligonale dei miei Pokémon preferiti.
Il problema di fondo era però Pokémon Stadium 2 stesso: come il primo, del resto, era un gioco brutto. Potevi far sfidare, seppur in svariate salse, una selezione di tre Pokémon, la cui potenza effettiva era bilanciata da un moveset che si adattava di conseguenza (esempio: Dragonite, fra i Pokémon più potenti del gioco, aveva mosse abbastanza inutili, mentre Cyndaquil, che invece era uno starter, poteva addirittura sfoggiare un bel lanciafiamme, che un Charizard qualsiasi si poteva solo sognare), oppure potevi giocare a dei party game a tema Pokémon abbastanza divertenti, sì, ma il gioco non valeva assolutamente la candela.
Morale della favola: non riporre mai aspettative troppo alte in qualcosa, specie se questa è un gioco di Pokémon per console.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai Pokémon, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.