Racconti dall'ospizio #7 - Earthbound
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti. E che oggi prende il posto di Old! perché ad agosto ci sono cinque weekend e altrimenti si scombina tutto il giochino.
Come forse sapete, sono un retrogamer accanito. Suono un Game Boy, organizzo serate di retrogaming e ascolto così tanta chiptune che la mia dolce metà fa le pulizie canticchiando Daddy Mulk degli Zuntata. Spesso, però, mi fermo a pensare al perché di questa mia passione. Cosa mi spinge a rivisitare i pixel di venti o trent'anni fa? La risposta più banale è la nostalgia: cerchi di recuperare la serenità dell'infanzia rispolverando il Green Beret che ti godevi nell'estate dell'88, tra un Calippo e un Fiordifragola. Sono nostalgico? Un po' sì, non ho problemi ad ammetterlo. Sarebbe sbagliato, però, archiviare tutto il fenomeno sotto la categoria “Si stava meglio quando si stava peggio”. Mi emoziono sempre quando rivedo un vecchio amico come Wonder Boy, ma mi diverto di più a scavare nell'ignoto. In quest'ottica, il retrogaming non è un atto di nostalgia, è un viaggio nel tempo. Un gioco non è mai solo un gioco: che si parli di capolavori dimenticati o di luridi shovelware per NES, ci sono sempre dei dettagli culturali che superano i limiti dello schermo. Ci raccontano della sensibilità musicale di un epoca, delle mode grafiche, del tipo di pubblico a cui erano indirizzati. Insomma, mi piace il retrogaming perché mi permette di tornare indietro nel tempo, di “centopercentare” il passato per capire meglio il presente.
Ecco, Earthbound fa saltare per aria tutto questo ragionamento. Se Outcast fosse la mia Delorean, il capolavoro di Nintendo e Shigesato Itoi sarebbe quello che manda in tilt la plancia della macchina del tempo. Da dove viene? Dal passato? Dal futuro? Da un game designer del futuro rimasto bloccato nel passato? Quel che è certo è che ha qualcosa di speciale, di magico, che comprensibilmente ha creato un grande pubblico di fedelissimi fan (che Nintendo ha ignorato con convinzione fino all'altro ieri). Quando ho fatto partire Earthbound, sono stato accolto da una musica incredibile, da una introduzione con un'atmosfera e una regia fuori parametro, da una grafica che aveva già capito il fascino del pixel, rendendolo protagonista anche se il resto del mondo faceva di tutto per nasconderlo. Se non avessi già giocato a Earthbound in passato e non l'avessi mai visto, avrei potuto tranquillamente pensare che si trattasse di un gioco di oggi, di quelli nati dal colpo di genio di uno sviluppatore indie eccentrico.
La grafica non è invecchiata di un giorno. Gli sprite dei personaggi e i paesaggi, oltre a essere un'enciclopedia di pixel art, fanno anche un uso dei colori meraviglioso, che ricorda quello delle gelatine per le luci nel cinema. A seconda del momento, del luogo e del mood, Earthbound fa un uso diverso della palette, dando vita a delle schermate tanto belle quanto inusuali, funzionali a una trama originale, delicata ed elegante. Earthbound è tecnicamente un GdR giapponese, ma pur condividendo alcuni dettagli come i combattimenti a turni, riesce a trascendere i limiti del genere. Racconta una storia fatta di luci e ombre, capace di far ridere e al tempo stesso di intristire: la storia di un bambino (e non di un mago guerriero) e dei suoi amici, catapultati nel mondo degli adulti per salvarlo da una misteriosa invasione aliena. Il ritmo della narrazione, nonostante si parli di un GdR, è fuori scala, e la trama regala costanti momenti di gioia e stupore. Il dato più significativo, per me, è che pur avendolo già finito anni fa, quando giopep mi ha passato il codice non sono riuscito a smettere di giocare. Ero partito con l'idea di “dare un'occhiata” per rinfrescarmi la memoria e controllare che non ci fossero magagne, e invece me lo sto rigiocando tutto, godendomelo come la prima volta. A costo di sembrare esagerato, vi dirò che mi sta dando la sensazione di rileggere un buon libro, di quelli che ogni volta ti rivelano un dettaglio in più, una finezza che ti eri perso al primo giro.
E poi c'è la musica. Earthbound è stato uno dei protagonisti di Outcast Sound Shower #12, e non a caso. Oltre ad avere abbastanza canzoni da riempire un doppio disco, combina una grande classe nella composizione a un gusto per le citazioni quasi maniacale, su tutti i fronti. Se siete dei Beatlesiani, sappiate che Earthbound è praticamente costruito intorno alle citazioni dei Beatles, che compaiono in maniera più o meno velata nei temi musicali e addirittura nei dialoghi. Ci sono i Blues Brothers, ci sono gli hippie, ci sono gli Who, e c'è addirittura un pezzo che campiona una sigla dei Monty Python. E poi ci sono dettagli che ti fanno capire che già ai tempi, before it was cool, Earthbound aveva capito il fascino del retro. Entrate nella sala giochi di Onett: tendete l'orecchio e sentirete i suoni di Xevious. Follia, follia meravigliosa. Earthbound, insomma, non è invecchiato. È ancora nuovo, e vederlo su Wii U, in tutta la gloria di una televisione al plasma, lo fa davvero sembrare un'uscita recente. Mi rendo conto che il prezzo di ingresso proposto da Nintendo possa sembrare un po' esoso (e lo è), ma se non avete mai provato Earthbound, fatelo, perché anche nel 2013 ha tantissimo da raccontare. Se vi piacciono i videogiochi, questa è un'esperienza che non vi può mancare, e che vi incito a fare a prescindere dalla piattaforma, che si parli di Wii U, di Super Nintendo, di emulatore... fidatevi. Se il retrogaming è una macchina del tempo, Earthbound è un meraviglioso paradosso temporale.