Il Doppio (triplo, quadruplo, eccetera) amore di François Ozon mi ha fatto diventare pazzo
A François Ozon voglio bene da anni per tutta una serie di motivi. Tuttavia, se dovessi sceglierne solo uno - anzi, due - punterei a colpo sicuro sulle zinne di Ludivine Sagnier in Gocce d’acqua su pietre roventi, che poi è stato anche il primo film del cineasta francese cha abbia mai incrociato.
Era il 2000 quando Ludivine, assieme a Bernard Giraudeau, Malik Zidi e Anna Thomson, ballava sulle note di Tanze Samba mit mir, la cover tedesca di Tony Holiday del celebre brano A far l'amore comincia tu, cantato dalla Carrà e scritto da Daniele Pace su musiche del grandissimo Franco Bracardi (ho insistito sul viaggio della sequenza, perché riflette abbastanza bene la vena postmoderna dell’Ozon prima maniera).
Da allora, credo di aver visto se non tutti, perlomeno la maggior parte dei film successivi del regista. Quelli più noti (contestualmente parlando, ché siamo al limite dell’area President), come 8 donne e un mistero, Swimming Pool (con, di nuovo, una Sagnier da stare MALE), Nella casa e Giovane e bella. Ma anche quelli meno blasonati tipo Potiche - La bella statuina, Angel - La vita, il romanzo e lo scombinatissimo Ricky - Una storia d'amore e libertà, e via così.
Eppure, al netto di una discreta dedizione alla causa, dopo tanti anni non sono ancora riuscito a fermare del tutto la poetica del nostro, capace di passare senza troppi problemi da un genere all’altro, da un registro all’altro. Da morbose indagini sull’animo umano - soprattutto quello femminile - a storie trasognate, parodistiche o grottesche.
Stanis La Rochelle parlerebbe di Ozon come il classico esempio di instabilità artistica. Tuttavia, tra i suoi film scorre perlomeno un filo comune: l’indagine del mondo femminile, lo sguardo sulle donne. Siano esse giovani, di mezza età o a ridosso della vecchiaia; figlie del popolo o della borghesia più agiata.
Doppio amore, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes e ispirato al romanzo Lives of the Twins (scritto dall’americana Joyce Carol Oates sotto lo pseudonimo di Rosamond Smith), non solo non fa eccezione ma cavalca pienamente la regola. Anzi, forse mai come in questo film, i temi del desiderio e della sessualità femminile sono al centro dello sguardo del regista.
Volendo generalizzare - e di parecchie spanne - si potrebbe infilare Doppio amore nel campo dei thriller erotici. A innescare la trama è il rapporto tra la giovane e attraente Chloé (interpretata da Marine Vacth, evidentemente nuova musa di Ozon) e il suo psicoterapeuta, Paul (Jérémie Renier), uomo affettuoso e comprensivo, più vecchio della ragazza di una decina d’anni.
Nonostante il film si apra con una metafora visiva bellissima e potentissima che rimanda al Buñuel di Un chien andalou (una sovrapposizione tra l’occhio lacrimante di Chloé e la sua vagina), per la prima mezz’ora scorre via liscio e senza troppi fronzoli. Sembrerebbe quasi di trovarsi davanti a una fra le opere più letterali e concrete di Ozon; una sorta di sequel spirituale di Giovane e bella, con cui condivide l’attrice protagonista.
Eppure, gli spettatori più avvezzi alla filmografia del regista non potranno fare a meno di cogliere alcuni dettagli meta-cinematografici indiziari degli sviluppi successivi. Nel corso di una seduta, Chloé confessa a Paul di aver sempre desiderato sedurre gli amici più anziani della madre, esattamente come la ragazzina del film precedente. Inoltre, racconta di aver guadagnato un discreto quantitativo di denaro attraverso la carriera di modella, laddove la protagonista di Giovane e bella era una giovanissima prostituta.
Di fatto, Marine Vacth porta in scena una sorta di doppelgänger “chiaro” del suo precedente personaggio. Giocando a sovrainterpretare un po’, si potrebbe addirittura pensare che il regista abbia scelto di svelare ai suoi iniziati la vera natura del film ancora prima che allo spettatore occasionale. Poco a poco, infatti, Doppio amore abbandona il suo apparente raziocinio per abbracciare gli aspetti più debordanti della poetica di Ozon, avvicinandosi a quel gioco di astratti personificati che è Nella casa, senza tuttavia raggiungerne l’efficacia e la coerenza di segni.
Con l’entrata in scena del gemello di Paul, Louis, pure lui psicoterapeuta sempre interpretato dal bravissimo Renier, il film esplode sia a livello di trama che di messa in scena. Le inquadrature iniziano a giocare con specchi e moltiplicazioni visive. I dialoghi, filtrati da campi e controcampi insistiti, si arricchiscono di sottotesti e allusioni non sempre comprensibili.
Il ruvido Louis, sedicente seguace del metodo cognitivo-comportamentale, rappresenta l’esatto opposto del docile Paul. Le sue sedute sono dei veri e propri abusi: di potere, di tempo e di spazio, che mettono Chloé completamente a nudo, psicologicamente e fisicamente.
I due gemelli, con le loro caratterizzazioni così diverse à la Jekyll e Hyde, rappresentano l’ambiguità della natura maschile. O, perlomeno, la natura maschile percepita da una ragazza insicura, nevrotica e gelosa come Chloé (e filtrata dalla sensibilità di Ozon, chiaramente). Una ragazza attratta dall’esercizio del controllo, ma anche inconsciamente desiderosa di essere dominata.
E questo è solo il punto di partenza della declinazione del tema del doppio, che col proseguire del film finirà col moltiplicarsi fino a spiazzare e confondere lo spettatore. Pur tenendo salde le redini della messa in scena – che, per estro e geometrie, sfiora il virtuosismo – da un certo punto in avanti ho avuto la sensazione (ma magari sbaglio) che Ozon abbia perso di vista la coerenza narrativa e, soprattutto, quella simbolica.
Saltando continuamente da un registro all’altro, Doppio amore sembrerebbe fare di tutto per sfuggire alle etichette e per mettere a disagio lo spettatore. Ogni volta che credevo di essere riuscito a inquadrarlo, il film ribaltava le carte e mi toglieva la sedia da sotto al culo. E forse è un problema mio, per carità, ma in qualche modo credo che Ozon, stavolta, sia andato a complicarsi un po’ troppo la vita.
Volendo parlare per paragoni, Doppio amore è una sorta di versione più cupa de Nella casa. Un film morboso, privo della folle esuberanza di Gocce d’acqua su pietre roventi o di Potiche. Tuttavia, se da un certo punto in avanti il nodo centrale di Nella casa – un’indagine sul rapporto tra autore, opera e processo creativo, messa in scena attraverso un gioco di astratti personificati – risultava, se non esplicito, perlomeno coerente e ben strutturato, stavolta non mi è riuscito di trovare la chiave per schiudere simboli e metafore. Oddio, grossomodo penso di aver afferrato il testo del film, OK, ma gran parte del suo sottotesto mi è rimasta sullo stomaco.
Insomma, non so, nonostante la sua insistita ricerca di simmetrie, Doppio amore mi è parso un film paradossalmente troppo squilibrato, troppo ridondante nei suoi plot-twist per convincermi e, soprattutto, coinvolgermi completamente.
Sono uscito dalla proiezione con la percezione che Ozon non sia riuscito a gestire e a comunicare correttamente tutto l’ambaradan che aveva per la testa (cosa che, ad esempio, è riuscita benissimo a Paul Verhoeven con Elle, o a Ruben Östlund con The Square , tanto per stare nello stesso campo da gioco). Però, ripeto, magari non ci sono arrivato io.
Ho visto Doppio amore in lingua italiana, grazie a una proiezione stampa alla quale noialtri di Outcast siamo stati gentilmente invitati. Come ho detto, il film è visivamente impeccabile, pieno di ottime idee, ma anche poco equilibrato nelle sue tesi e nei suoi simboli (o, perlomeno, così mi è parso). Insomma, mi sa che lo dovrò riguardare.
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