L’isola dei cani è troppo bello: i fan di Wes Anderson non se lo meritano!
Il mio primo film di Wes Anderson è stato Un colpo da dilettanti, recuperato nel 1996 attraverso Tele+, ma il mio primo “vero” film di Wes Anderson (nel senso di “OK, so cosa sto guardando”) è stato - come per molti, immagino - I Tenenbaum.
Ricordo che lo davano al Politeama, un cinema ricavato da un vecchio teatro scomodissimo ma bellissimo, i cui arredi faceva il paio con gli appartamenti newyorkesi proiettati sullo schermo. Ricordo pure che ero uscito dalla sala con due pensieri per la testa.
Primo: era dagli esordi di Tim Burton che non incappavo in una messa in scena così personale e consapevole (per quanto un po’ ruffianella).
Secondo: questo regista diventerà il beniamino di un sacco di gente che mi sta sul cazzo.
E così è stato. Per quanto a oggi abbia apprezzato praticamente tutti i lavori di Wes Anderson - e Il treno per il Darjeeling di più - nel corso degli anni il regista di Houston è diventato il cocco di un mondo rispetto al quale mi sento completamente estraneo. Un mondo popolato da aspiranti archistar, designer in dolcevita, critici musicali tendenzialmente indie che vestono vintage, e altri esemplari da fuorisalone (ciao, Stefano).
OK, sto generalizzando. La verità è che detesto sentirmi - come dire - “etichettato”, o parte di qualcosa che non apprezzo. E al giorno d’oggi entrare in un cinema e chiedere in cassa un biglietto per l’ultimo film di Wes Anderson, equivale ad appiccicarsi addosso un’etichetta con scritto “fighetto” grossa così. Amen.
Al netto dei cliché, il cinema di Anderson mi piace un sacco. Mi piacciono le sue geometrie e le composizioni ordinate; le musiche e i colori.
Mi piacciono le storie che racconta, quasi sempre storie di famiglie affettuosamente tribolate, di esclusione, e contemporaneamente di paura dell’inclusione. C’è pure di mezzo una certa poetica nichilista sospesa tra BoJack Horseman e il J. D. Salinger di Alzate l'architrave, carpentieri, che deve moltissimo alla mano newyorkese di Roman Coppola. E poi, già che ho tirato in ballo Coppola, c’è l’entourage. Quel senso di clan, di famiglia (eh, beh) che si respira nei film di Anderson, dove ricorrono sempre le stesse facce - quella di Bill Murray su tutte - e le stesse voci.
Un po’ come nel cinema di Tim Burton, appunto. Con la differenza che la poetica di Anderson può ancora riflettersi nella sua estetica senza risultare, a mio modo di vedere, stucchevole; ha ancora spazio di manovra e crescita. Poi, per carità, anche Burton ogni tanto ci azzecca ancora: ne faccio più che altro un discorso di costanza e prospettive.
Detto questo, l’ultimo film di Wes Anderson, L’isola dei cani, è probabilmente uno dei suoi lavori più riusciti. Una favola a passo uno scritta dal regista assieme a Roman Coppola, Jason Schwartzman e Kunichi Nomura, e frutto ancora una volta della collaborazione tra il cineasta e il direttore dell’animazione Mark Waring, già supervisore degli effetti di Fantastic Mr. Fox, oltre che animatore per Frankenweenie e La sposa cadavere (diretti da Burton, tanto per). Le musiche originali, invece, sono state curate da Alexandre Desplat, a cui balla ancora in tasca l'Oscar per La Forma dell'acqua.
La trama del film è piuttosto semplice, e se da un lato rappresenta una riduzione favolistica della poetica “famigliare” del regista, dall’altro la apre verso una dimensione sociale più ampia, pur senza perdersi in troppe complessità.
In un prossimo futuro distopico alla 2022: i sopravvissuti, il sindaco della città di Megasaki decide di esiliare i cani dell’arcipelago giapponese su un’isola piena di rifiuti, a causa di un’epidemia di influenza canina apparentemente incurabile. Lì, il branco composto da Rex (doppiato da Edward Norton nella versione originale del film), Boss (Bill Murray), Duke (Jeff Goldblum) e King (Bob Babalan), capitanato dal brusco randagio Capo (Bryan Cranston), lotta ogni giorno per la sopravvivenza.
A dare una svolta alle vite dei cinque animali sarà l’incontro con il giovane Atari Kobayashi (Koyu Rankin), nipote del sindaco atterrato sull’isola con l’intento di recuperare il suo amato cagnolone Spots (Liev Schreiber), e eventualmente provare a risolvere un po’ di cosette che non funzionano; a cominciare dall’esilio canino.
Come ho già accennato, nonostante tocchi tematiche intime, sociali e famigliari decisamente profonde, la storia non abbandona mai il taglio favolistico. Prosegue diritta, senza troppi giri di parole né sorprese, ma risultando sempre gradevolissima. Oddio, forse la rappresentazione della cultura giapponese nel complesso è un po’ stereotipata, ma tutto sommato non è certo l’unica semplificazione di un film scritto e diretto da un americano che non fa nulla per nascondere la propria provenienza, e che in passato ha già adoperato stereotipi, anche occidentali, per esigenze di racconto o estetiche.
Di tutt’altro avviso sono l’impianto visivo e la messa in scena, che si fanno carico di tutta la complessità che la trama sceglie di dribblare.
L’isola dei cani non spreca un millimetro di spazio, riempiendo ogni singola inquadratura con dozzine di dettagli fantastici, colori e geometrie perfette. Tutto quanto scorre in continuazione, perlopiù sul piano orizzontale o su quello verticale. O su entrambi, contemporaneamente. Persino quando il livello che ospita la narrazione sembra statico, nove volte su dieci basta spostare lo sguardo su un altro punto dello schermo per scoprire che c’è della roba che sta andando per conto suo, o per notare e apprezzare questo o quell’altro effetto di parallasse.
Insomma, la forma del film è anche la sua sostanza. La regia mescola con disinvoltura l’estetica Western con quella di Chambara e Tokusatsu; la fantascienza si incrocia con le danze Bugaku e con il teatro di burattini Bunraku, l’oriente con l’occidente.
In virtù di questa ricchezza, a livello stilistico e grafico, L’isola dei cani è un fuoco d’artificio in continua evoluzione. Quando il racconto ha bisogno di declinare delle riprese in live action, ad esempio, passa dallo stop-motion all’animazione tradizionale. E questo è solo il più segno più vistoso di un sistema dialettico infinitamente più grande e complesso, che riesce a sembrare coerente pur attingendo da decine di linguaggi diversi. Nel film coesistono pittura tradizionale giapponese, manga, fumetti americani, animazione europea e canadese, musica tradizionale, pop, rock, e molto, molto altro ancora. E spesso ciascun alfabeto ne contiene un altro, come sembrerebbe suggerire il poster appiccicato qua sotto.
Dopo un po’ si ha la sensazione di guardare un enorme diorama in movimento, sempre pieno di roba. E per quanto - mi rendo conto - sembra che stia elencando i soliti cliché da produzione postmoderna, L’isola dei cani è fatto di un’altra pasta. Non saprei bene come spiegare la differenza, ma salta all’occhio.
Appena uscito dalla sala, ancora frastornato (da lì a due ore e mezza lo sarei stato persino di più per via di Avengers: Infinity Wars), mi è tornata in mente la recente chiacchierata con Nanni Cobretti. In particolare, la parte in cui il boss de I 400 Calci prova a rendere a parole la ricchezza delle inquadrature di Michael Bay. Ecco, magari sono io che mi faccio influenzare dalle circostanze, oppure L’isola dei cani è davvero l’ennesimo segnale che certo cinema di oggi sta tornando prepotentemente a farsi guardare. Resta che se domani dovessi descrivere a qualcuno come Nanni il nuovo lavoro di Anderson, probabilmente gli direi che è come un film di Bay, ma schiacciato in due dimensioni, e senza il discutibile umorismo di Bay.
Ho avuto la possibilità di guardare L’isola dei cani in anteprima e in lingua italiana grazie a una proiezione stampa, e ne sono rimasto entusiasta. A livello visivo, l’ultimo film di Anderson è talmente ricco di dettagli gustosi che andrebbe fruito assolutamente in sala. Meglio se in lingua originale, per via di un cast pazzesco che va completamente perduto nella (pur buona) versione italiana.