Semblance ti immerge nel pongo
Avete presente quel fenomeno in base al quale la versione più popolare di un prodotto diventa il modo in cui chiamiamo quel prodotto, al punto quasi di dimenticarci del fatto che stiamo utilizzando il nome di una marca? Ricordo che ai miei tempi si diceva “l’Invicta” per indicare qualsiasi zaino o “il Walkman” in riferimento a qualsiasi aggeggio portatile utilizzabile per ascoltare musica. Ma gli esempi si sprecano, basta pensare a Jeep o al fatto che, a seconda dei periodi e dei territori, Nintendo, PlayStation e Xbox sono diventati sinonimo di videogioco, al punto di creare cortocircuiti tipo il servizio del telegiornale in cui viene detto «È arrivata GameCube, la nuova PlayStation di Nintendo”. Nel grande club si inserisce anche il Pongo che, per carità, è pure Didò, Play-Doh se siete americani e chissà che altro, ma fondamentalmente è Pongo. O almeno lo è per quelli della mia generazione, nonostante il Didò per un certo periodo sia stato abbastanza famoso. Non so come vada coi giovani d’oggi.
Comunque, questo preambolo è per dire che Semblance è un gioco di piattaforme in cui gran parte di quel che si vede a schermo è fatta di Pongo. Lo è il protagonista, una pallina che saltella in giro deformandosi, e lo sono pareti e piattaforme, a loro volta deformabili. Tutto il gioco e la sua struttura sostanzialmente da puzzle game ruotano attorno a questa concezione, che richiede di affrontare vari enigmi ambientali mescolando azione piattaformica all’acqua di rose e capacità di deformare i vari elementi nella maniera giusta. Insomma, Semblance è un gioco vecchio stile, che sembra uscito dagli anni Ottanta e Novanta, da quel periodo in cui, per distinguersi, si puntava tutto su un’idea forte da plasmare, sfruttare e declinare fino in fondo, tirando fuori ogni volta qualcosa di innovativo e originale. Ed è uno spacco.
Nel gioco si controlla appunto una specie di palletta di pongo, impegnata a liberare il suo mondo molliccio da una strana infezione che cristallizza tutto quanto. Per farlo, bisogna recuperare dei globi sparsi in giro, eventualmente raccattando anche collezionabili extra, all'interno di livelli strutturati come veri e proprio enigmi. Saltellando in giro e colpendo le superfici è possibile deformarle, in modo da creare piattaforme, sollevarne, spostarne in giro, scavare fossati in cui nascondersi dai pericoli e via dicendo. Inoltre, possiamo trasformare la stessa pallina, schiantandola contro superfici particolari per appiattirla in modi diversi, cambiandone quindi la forma ma anche le capacità di salto e movimento.
Questo genere di meccaniche si integra poi a un level design che mescola pericoli di vario tipo, strutture assortite, raggi laser, creature cristallizzate dal tocco mortale e via dicendo, con una gestione dei checkpoint molto saggia e accomodante, che non solo dona resurrezione immediata nella zona in cui si è eventualmente morti, ma conserva anche le modifiche applicate a piattaforme e altro. Modifiche che, per altro, possiamo annullare in qualsiasi momento con una funzione apposita. Ne viene fuori un gioco di puzzle e piattaforme molto piacevole, tra l'altro parecchio ispirato sul piano stilistico, nel quale si passa la maggior parte del tempo a ragionare su come risolvere le situazioni e raramente ci si trova bloccati in vicoli ciechi o per scogli legati all'abilità manuale.
Semblance, poi, è veramente un gioco perfetto da godersi su Switch: pur facendo la sua piacevole figura sullo schermo della TV, si gioca alla perfezione in modalità portatile, non perde nulla in termini di leggibilità e, con la sua struttura a base di checkpoint agili ed enigmi circoscritti si presta assai a una fruizione veloce, alla fermata del tram o sulla tazza del cesso. Se devo proprio fargli qualche critica, possiamo dire che il livello conclusivo sposta forse un po’ troppo le meccaniche verso l’azione, con un cambio di prospettiva che può spiazzare chi ha apprezzato il taglio più rilassante che caratterizza il gioco. E aggiungerei che Semblance non è magari un gioco lunghissimo, ma d’altra parte se ne esce con un buon senso di soddisfazione, senza l’impressione che le varie meccaniche non siano state sfruttate a dovere. E, fondamentale, senza essere stati immersi nel brodo allungato.