Senza indizio è senza vergogna. E si diverte tantissimo
“Tu chi vorresti essere da grande?”
La mia risposta a questa domanda è cambiata tante volte nel tempo. Da bambino (ovviamente) volevo essere un pilota di robot, elicotteri o moto. Colpa rispettivamente dei giapponesi, di Supercopter e di Street Hawk.
Da ragazzo ero certo: Michael J. Fox, nonostante ci separino dodici anni a vantaggio suo e ventidue centimetri a vantaggio mio (ma, del resto, pochi anni prima volevo anche essere Gigi la trottola).
Poi le cose divennero sfumate, divenni una persona adulta, seria, idealista e, quindi: confusa. Mi immedesimavo facilmente ma non rimanevo ancorato.
Ora che ho temperato l’idealismo con l’esperienza e fatto evolvere una personalità sicura, non ho più necessità di ancorarmi a immedesimazioni evanescenti.
Da grande sarò Michael Caine.
Con l’età, mi è cresciuta dentro una sincera ammirazione per un’eleganza e un contegno costruiti partendo dai bassifondi e lavorando duro, durissimo, ma sempre ridendosi un po’ sopra. Se si pensa che la terra che gli ha dato i natali è, con rispetto parlando, un’isola di pecorai che con duro, durissimo lavoro, ha costruito un impero, imposto un immagine di eleganza ed etichetta in cui c’è sempre spazio per ridere sommessamente di sé stessi, probabilmente Michael Caine è uno dei migliori paradigmi di “britannicità”.
E il film che mi aprì gli occhi sulla capacità ironica di un divo che ammette candidamente di avere “sempre e solo lavorato per soldi” fu Senza indizio (Without a Clue - 1988) in cui Michael Caine interpretava il più perfetto Sherlock Holmes di sempre: elegante, distaccato, imponente.
Peccato che fosse un idiota.
Senza spoilerare, dal momento che viene detto immediatamente prima della sigla, in Senza indizio, Sherlock Holmes è in realtà tal Reginald Kincaid, attore fallito specializzato in drammi di cappa e spada di terza categoria, assunto da un geniale John Watson (Ben Kingsley) per interpretare il personaggio da lui creato e la cui popolarità è rapidamente sfuggita al suo controllo, in un parallelo ironico e metatestuale con quello che successe al Dottor Arthur Conan Doyle.
Dire chi sia tra i due premi Oscar il più bravo a interpretare un personaggio costretto a recitare quello che non è diventa quasi impossibile. Watson - Ben Kingsley recita con l’esilarante iperattività del genio obbligato ad intricate dissimulazioni e giochi di mano, mentre indaga senza farsi notare, imbecca l’incapace Sherlock, ne previene come un consumato scacchista i più imbarazzanti strafalcioni e contemporaneamente si trattiene dallo strozzarlo. Holmes - Michael Caine è invece schizofrenico nell’alternare la stolida calma di chi non sta capendo assolutamente nulla, scambiata ovviamente per apollineo distacco, e l’arrogante dialettica del ciarlatano da fiera, che percepisce di essere sull’orlo dell’ennesima figuraccia, considerata altrettanto ovviamente prova della sicurezza di sé.
La sceneggiatura di Thom Eberhardt valorizzava poi il duetto, creando un crescendo di situazioni in cui ogni tentativo del povero Watson di liberarsi dell’ingombrante idiota veniva miseramente abortito e contemporaneamente indizi di enorme evidenza, quasi cartelli segnaletici, venivano bovinamente ignorati dall’ineffabile Holmes.
Difficile dire chi fosse il più bravo, appunto, ma assolutamente evidente quanto i due attori si stessero divertendo un mondo, al punto di sembrare sempre a un pelo dallo scoppiare a ridere.
Se non fosse bastato questo a risollevare un film dalla regia assolutamente anonima, è d’obbligo menzionare anche un cast di solidi comprimari: una caratterista minore come Pat Keen riesce a caricare la Signora Hudson di indignazione inglese di fronte alla deboscia di Holmes e Paul Freeman è un Moriarty macchiettisticamente mefistofelico come Holmes merita. Ma su di tutti spicca il faccione di cera di Jeffrey Jones, che a quattro anni dalla sua interpretazione dell’Imperatore Giuseppe II d’Austria in Mozart, si presta alla sistematica demolizione di ogni pretesa d’autorità possa avere il povero ispettore Lestrade di Scotland Yard.
Ad anni di distanza, ogni volta (circa una all’anno) che riguardo Senza indizio, ecco che mi ricorda chi voglio diventare da grande: una persona magari non troppo intelligente, modestamente abile, certamente non irreprensibile, elegante quando serve ma con un po’ di sofferenza e sempre, sempre capace di ridere di sé con un sorriso ampio e sornione.
Da grande voglio diventare Michael Caine.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.