Outcazzari

Ma dottore, il bambino Nintendo 64 sono io!

Ma dottore, il bambino Nintendo 64 sono io!

Ho sentito una barzelletta… Un uomo va dal dottore, gli dice che è depresso, che la vita gli sembra dura e crudele, gli dice che si sente solo in un mondo minaccioso… Il dottore dice: «La cura è semplice, C’è un video su Youtube, con un bambino che scarta il suo regalo di Natale e trova un Nintendo 64. Cerchi Nintendo Sixty-FOOOOOOOOOOUR la dovrebbe tirar su!». L’uomo scoppia in lacrime: «Ma dottore… il bambino Nintendo 64 sono io!»

L’infanzia è quella parte della vita durante la quale tutti i regali di Natale sono grossi.

Un po’ per questioni banalmente anatomiche, un po’ perché la sproporzione delle scatole è un valore aggiuntivo affascinante per il regalo di un bambino, un po’ perché la memoria è fallace, ingigantisce le cose belle e restringe quelle piccole.

Di regali di Natale grossi, quindi, è facile fare una lista, come una gru gialla funzionante a batteria alta quasi quanto me (e all’epoca, come adesso, non è che ci volesse tanto), la scatola smodatamente grande del gioco da tavolo Assedio!, il Millenium Falcon Micromachine che sono quasi certo per quelli della mia generazione avesse la stessa fascinazione di quello originale e più famoso per la generazione precedente. Ma la più grande di tutti, nei miei ricordi, fu la scatola del Nintendo 64.

Non voglio sapere quali siano le sue dimensioni adesso, probabilmente non così grande, dato che per gran parte della sua vita è rimasta confinata nel cassetto basso del mio comodino e che quindi poi così grande non doveva essere, però non fa niente, perché la scatola del Nintendo 64 conteneva un mondo.

Monumentale, col senno di poi anche funebre, data la somiglianza delle cartucce a una lapide.

Arrivò ovviamente accompagnato da Super Mario 64, che per gli anni a venire sarebbe stato il metro di paragone, ingiusto, col quale avrei misurato tutti gli altri videogiochi platform 3D, trovandoli scadenti. Crash Bandicoot? Ho odiato il suo movimento monodirezionale, il suo voler essere forzatamente cool, la confusione dell’attacco a rotazione, la prospettiva, i colori, ero troppo preso dalla superiorità tecnologica e morale di Super Mario 64. I vari Spyro e Medievil nemmeno li guardavo, figuriamoci gli altri assolutamente dignitosissimi platform che di sicuro erano in giro ma che, anche impegnandosi a fare il loro, giocavano in un campionato truccato.

Super Mario 64 è stato anche il gioco che mi ha fatto snobbare la grafica 2D fino a tempi imbarazzantemente recenti dove, cabinati a parte, mi sono forzato a giocare cose per i Retroutcast ai quali ho avuto l’onore di partecipare, per colmare quel gap di snobismo nella mia formazione videoludica.

Nemmeno sapevo come si usasse una croce direzionale, e si che c’era pure sul pad tricorno del N64, ma chi vuoi che la usasse mai, complici anche le mani di bambino che impugnarono quell’animale strano e il suo pistillo analogico. Troppo avanti, troppo più naturale esplorare lo spazio inclinando una levetta.

A parte alcuni precedenti non continuativi, Super Mario 64 è stato il primo amore, pur se mi causava sensazioni contrastanti. Era bello, bellissimo, forse troppo bello perché lo apprezzassi. Sembra una stupidaggine ma per certi giochi funziona proprio così, sono semplicemente troppo e quando li incontri la prima volta non sei nemmeno capace di giocarci, figuriamoci di renderti conto di quello che hai davanti. Però era così, assolutamente non violento, gentilmente naif, confortevole e “facile”, sembrava adatto ad un bambino della mia età, probabilmente di prima elementare, eppure impervio, tant’è che io, più che giocarci, ci giravo dentro, e il lavoro sporco di proseguire nella storia e aprire le porte lo fece mio padre. Non attacco il Nintendo 64 da anni, ma nella cartuccia dovrebbe ancora esserci il suo salvataggio.

Per quanto Super Mario 64 fosse ambientato tutto nel castello della principessa Peach rapita, in ognuna delle stanze, chiuse dietro porte accessibili solo ad un determinato numero di stelle, un quadro apriva la porta su mondi distanti.

Ora, miei cari lettori, non so voi all’epoca, ma il senso di inquietudine pervadeva il me bambino: il castello era un luogo innaturale, sbagliato, straniante e solitario. Una spaventoso castello infestato in netto contrasto con l’aspetto invece così pacifico. Ma di più, in termini che intellettualmente intuivo più che cogliere (e ci mancherebbe altro), il fatto che nel linguaggio colloquiale i livelli venissero chiamati “quadri” e che nel gioco per accedere ad un livello specifico dovessi saltare in un quadro mi mandava ai matti. Cioè, per me, per anni, i “quadri” erano letteralmente dei quadri.

C’era un disagio serpeggiante, in alcuni livelli, che non riuscivo a togliermi di dosso. Come essere sospesi ad altezze folli, la rappresentazione di alcuni luoghi che, nella loro bolla, erano veramente inquietanti, alcuni nemici che, oggettivamente, non potevo abbattere e il tono vagamente enigmistico che, all’accesso di un livello, ti indicava la via per raggiungere la stella.

A parte la folle paura delle altezze, in quegli anni pareva che il principale nemico fosse la gravità lì in agguato contro la mia coordinazione occhio mano per spazzare via qualsiasi progresso. Ci aggiungo il terrore di affogare a causa di livelli come quello del relitto sommerso e quella raccapricciante murena e i suoi occhi privi di vita.

Motivo per cui, a scrivere la parola fine alla storia del gioco ci pensò mio padre, ma con tutte le porte aperte giocai tanto anche io, specie ai livelli di Bowser: mi piaceva la boss fight e mi affascinava il percorso per arrivarci.

Sono pieno di ricordi disordinati, alcuni sepolti più profondamente di quanto vorrei. Ricordo e non ricordo qualcosa di crepuscolare, localizzato ipoteticamente prima dell’ultima boss fight con Bowser, livelli “difficili” ma che saltuariamente mi appaiono in sogno, combinazioni di realtà effettiva del gioco e finzione, percorsi nel cielo tra le nuvole di un bianco brillante, porte che già di per sé erano difficili da raggiungere. Imprinting onirici di tempi sospesi.

Essendo stato Super Mario 64 il mio primo Mario, mi è rimasta ignota per gran parte della mia vita (e ancora oggi, perché quella lacuna, con le successive console Nintendo, non l’ho mai più colmata) tutta una grammatica di blocchi e potenziamenti che in 64 non c’erano, rendendolo un gioco forse più scarno ed essenziale, se pure più ricco e vario dal punto di vista dei movimenti e delle azioni che Mario poteva compiere. C’erano però i tre cappelli power up, di cui ancora adesso ignoro la posizione, per sbloccare il blocco verde e il suo potenziamento metallico. Non ho mai guardato bene nemmeno il blocco blu del cappello invisibile, ma la bellezza del cappello volante era una cosa che ancora oggi non voglio spiegarmi e lasciarla lì, dove merita di essere, tra le cose belle e intoccabili dell’infanzia.

Super Mario 64 è stato una delle esperienze sulle quali si basa gran parte della mia vita di videogiocatore e temo anche dell’altra, che con i videogiochi ha meno a che fare. Non so come sia invecchiato, impossibile non riconoscere in lui un seme di vera modernità che ha cambiato il videogioco per sempre. Dopo di lui, nella mia vita non ci sono stati altri Mario 3D e questa assenza ha contribuito a cristallizzarne l’aura di mito.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Mario, che trovate riassunta a questo indirizzo.

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