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Racconti dall'ospizio #76: Portal - The cake is a lie

Racconti dall'ospizio #76: Portal - The cake is a lie

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Immaginatevi all’età di vent'anni. Avete appena intrapreso il vostro percorso di studi in un’università completamente rivolta alla formazione di professionisti nel settore dei videogiochi. Insieme ad alcuni compagni di corso, state mostrando il vostro gioco gratuito alla fiera annuale dell’istituto. Il vostro progetto vi vede impersonare la principessa “Senza Ginocchia”, impossibilitata a saltare ma capace di creare dei portali per sfuggire da un tetro dungeon. Nella grossa palestra, tra i due canestri da basket e l’equivalente informatico di svariati sparapatate a pressione e vulcani in argilla, si aggirano dei cacciatori di talenti. Uno di questi si ferma al vostro tavolo, gioca per qualche minuto assorto nei puzzle dei primi livelli, quindi vi chiede se sareste disponibili a mostrarlo a questa azienda qui, poco lontano, a Bellevue. I PC li abbiamo noi, potete venire con l’autobus.

Voi ovviamente accettate e, emozionati, riproducete il vostro tavolo nella lobby di Valve. Ripassate a mente la vostra presentazione mentre ammirate le copertine dedicate ad Half-Life e, insieme ai compagni di corso, girate la valvola rossa davanti alla receptionist, che ha assistito alla scena troppe volte. Quindi arrivano delle persone, tra cui, difficile non vederlo, Gabe Newell. La voce vi si chiude un po’ ma procedete a mostrare i livelli di gioco, siete particolarmente orgogliosi della conservazione del moto simulata. Visto? Se ci si lascia cadere in un portale dall’alto, si esce alla medesima velocità.

Gabe osserva per un po’ con il suo solito rumoroso respiro. Poi guarda il gruppetto di appena ventenni e chiede: “Vi piacerebbe lavorare da noi?”

A quel punto, credo che Kim Swift e i suoi compagni abbiano pensato ad uno scherzo. Perché passare direttamente dal Digipen a Valve è un po’ come essere richiesti dalla Lockheed Martin se la vostra astronave di Kerbal è riuscita ad uscire dall’orbita. Un tunnel spaziale che salta a piè pari stage, collaborazioni a tempo determinato, contratti di ingresso, orrendi GdR coreani volti a fare curriculum. Siete in una palestra, si apre un portale e vi ritrovate a giocare il SuperBowl nei Seattle Seahawks. Probabilmente disorientati, i neoassunti pensano di riproporre la vicenda della Principessa, questa volta munendola di articolazioni, ma no, al primo playtest la gente cerca di creare portali sui golem, sospettando che l’uscita del livello si nasconda dietro a un quadro. Meglio ridurre al minimo gli arredamenti, come negli ambienti asettici di quel film uscito recentemente, The Island. Gli stessi tester vengono immediatamente rapiti dalla capacità dell’Aperture Science Handeld Portal Device, ma chiedono dove conducano quelle stanze, e come ci siano finiti dentro. Istruito a non fare parlare la protagonista Chell, unica direttiva giunta dall’alto in un'azienda organizzata in modo orizzontalmente caotico, il team di sviluppo fatica, durante il primo anno, a dare una personalità a tutta la vicenda. Perché non affidare l’impresa ai due autori sapientoni di Old Man Murray, il sito che ad inizio millennio stroncava gran parte dei giochi sottolineandone la poca originalità? E perché non riutilizzare alcune delle texture di Half-Life 2, magari chiedendo al suo autore principale, Mark Laidlaw, di inserire in qualche modo il gioco all’interno della mitologia di Gordon Freeman, in modo da giustificare le somiglianze?

Lo sviluppo sembra essere un susseguirsi di cause ed effetti assoggettati alla serendipità: la protagonista non parla, perché da queste parti la cosa sembra portare fortuna, ma costringere qualcuno a superare quattro, cinque ore di test completamente in silenzio risulterebbe straniante. Eppure è sola, servirebbe una voce distante, qualcosa di onnipresente ed artificiale che rincuori il giocatore. L’attrice scelta per il doppiaggio parte adeguandosi all’ambiente, fredda e programmata, ma durante una delle fasi di doppiaggio, per gioco, altera la sua voce, insinuando nelle parole una sibilante psicopatia. GlaDOS, con il proseguire delle stanze, attraversa tutte le fasi dell’ossessività: fornisce direttive informali, sembra affezionarsi alla nostra persona, rivela qualche segreto confidando in una inesistente confidenzialità e rivela infine tutta la sua disturbante natura. Sebbene adorabile, è difficile affezionarcisi, servirebbe almeno un surrogato, un Wilson da chiamare disperati mentre la corrente lo porta via. Il problema è che che l’unico oggetto ricorrente, capace di aiutarci con il suo peso e la sua consistenza, è un cubo. In quei giorni, la C.I.A. è costretta a rendere note le sue “evolute” forme di interrogazione dei presunti terroristi islamici, sottolineando come i malcapitati, durante le privazioni sensoriali, tendano ad affezionarsi a qualsiasi oggetto. Soprattutto quelli contraddistinti da un particolare, qualcosa di semplice come un cuore.

E così, aprendo scorciatoie blu e arancioni laddove c’erano solo solide mura, questo crogiolo dimensionale passa da un’idea memorabile all’altra, piazzando torrette dalla voce puffosa che prima ci sparano, poi ci rassicurano di non serbare rancore nel momento in cui le disabilitiamo. Mostrando cartelli che indicano l’uscita, ma che in realtà conducono alla fornace. Regalandoci una torta di panna e cioccolato, insieme alla canzone più celebrata nella storia dell’hobby, e cambiando poi il finale con una patch in prossimità del seguito, anni dopo.

Dimostrando che, davvero, la torta era una bugia.

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