There goes The Neighborhood - La complicata vita di un Il Mio Giocatore in NBA 2K18
OK, avendo scelto questo titolo sento di dover aprire con un disclaimer: non ho intenzione di parlare di un mediocre - ma divertentissimo - videogioco della serie Backyard Wrestling per PlayStation 2 popolato di pornostar, clown e Andrew WK, ma della modalità al centro di tutto ciò che riguarda Il Mio Giocatore in NBA 2K18.
Quando mi è stato proposto di scrivere delle mie impressioni su NBA 2K18 ho risposto immediatamente e con assoluta certezza “sì, ma non subito”. Mancavano un paio di giorni all’uscita del nuovo capitolo, avevo già giocato al Preludio, che per il secondo anno consecutivo ha anticipato di una settimana il gioco completo, e un principio di idea su cosa aspettarmi per il resto dell’annata di pallacanestro videoludica l’avevo già formato, ma sapevo che ci sarebbe voluto tempo per arrivare ad un giudizio più attendibile, perché... questo non è il mio primo rodeo.
Ho iniziato a giocare a NBA 2K su PlayStation 2, quando era una serie relativamente nuova che anno dopo anno rosicchiava pubblico alla controparte di casa EA Sports. Ho giocato a NBA 2K su PlayStation 3, quando ormai il sorpasso era stato effettuato e la pressione su NBA Live era diventata tale da suggerire il tentativo disperato di reinventarsi in NBA Elite 11, mandando tutta la serie in corto circuito. E quando ho visto il trailer di NBA 2K14 su quella che al tempo si chiamava “next gen”, ho sentito quel particolare prurito al portafogli che mi ha fatto capire che presto avrei comprato una PlayStation 4 per giocarci, anche se si trattava di poco più di una demo.
La serie NBA 2K, su questa generazione di console, è stata un giro sulle montagne russe, con alti molto alti e cadute in picchiata molto picchiata. NBA 2K15 era partito così così, è diventato un buon gioco per un po’, e poi è stato distrutto da una patch in cui si decise di lasciare da parte l’intera fase difensiva. NBA 2K16 è stato forse il più solido della famiglia, ma ci sono voluti mesi - troppi, considerando che il vero ciclo vitale di un gioco del genere va da ottobre ai primi di giugno - e diverse patch prima di arrivare al risultato finale. NBA 2K17… NBA 2K17. Dodici (DO-DI-CI) patch, di cui due uscite nel giro di venti minuti, a 7,5 GB alla volta su PlayStation 4, decine (e decine e decine) di aggiornamenti giornalieri che potevano portare il gioco ad essere vergognosamente facile o praticamente impossibile per le successive ventiquattro ore. Tornando alla metafora delle montagne russe, NBA 2K17 è stato l’Euthanasia Coaster.
Eppure c’era molto ottimismo per NBA 2K18. Perché chi segue questa serie da più di cinque minuti sa che ogni tanto ci sono questi anni di “beta” (col prezzo di un gioco completo, però, non sia mai), e perché da questo episodio c’è un diretto coinvolgimento nel gioco della NBA, quella vera che muove quei due spicci ogni anno, che si prepara a lanciare la prima lega di eSports sotto l’egida di un’associazione sportiva professionistica americana.
Qualche difetto più o meno grande c’è sempre, ma NBA 2K18 è davvero la simulazione di pallacanestro più vicina alla realtà che sia mai stata realizzata. E se qualche volta giocandoci possono saltare i nervi, al terzo tiro consecutivo che non va dentro nonostante otto metri di spazio, mentre il nostro avversario continua a segnare tiri marcati cadendo all’indietro in tuffo carpiato… ricordatevi che si tratta della simulazione di pallacanestro più vicina alla realtà mai realizzata, quello sport bastardo in cui puoi giocare dieci partite perfette e vincerne sette. Forse.
Ma Visual Concepts ha passato gli ultimi anni a spingere più in là i limiti del genere, e il gameplay da solo non basta più a valutare un episodio della serie. Hanno cercato di aggiungere sempre più contorno a quello che succede nel rettangolo di parquet di 28x14, ed è seguendo questa idea che è nato “The Neighborhood” (non ce la faccio a chiamarlo “Il Quartiere”, tra i piccoli difetti di questo gioco c’è la traduzione e impostarlo in inglese è stata l’unica salvezza per il mio fegato), il nuovo hub centrale della modalità Il mio giocatore e unica porzione del gioco in cui mi sono addentrato in questo primo mese di vita di NBA 2K18.
Si è già parlato da queste parti di come The Neighborhood sia una grossa macchina spremi-portafogli per gli utenti (news flash: convincere gli utenti a spendere VC, possibilmente a suon di microtransazioni, è uno degli obiettivi principali di 2K Sports già da qualche anno), perché per il resto è solo un grosso menu camuffato da quartiere di Los Santos e popolato di utenti AFK con limitatissime interazioni, quindi andrò diretto ai tanti altri aspetti che vanno ad influire sulla “vita” di un Il mio giocatore in NBA 2K18 e meritano un approfondimento.
Non la storyline della modalità La mia carriera, quella approfondimenti non ne merita perché è ormai palese che 2K abbia riconosciuto l’evoluzione online avuta dai suoi titoli, che ha progressivamente trasformato la carriera single player in un mob mode di allenamento, e ha scelto di rinunciare agli Spike Lee di turno e ridurre la backstory del personaggio ad un paio di irrilevanti, per quanto inverosimili, scenette spiattellate qua e là che esauriscono il loro appeal appena ci siamo guadagnati un contratto NBA.
L’NBA, però, non è l’unico modo di mettere piede in campo. C’è il ProAm, sia a squadre che in modalità “mettiamo insieme cinque tizi trovati al semaforo”, e c’è il parco, in questa edizione rinominato Playground.
Per quanto apprezzi il ritorno ad ambientazioni più “urbane” e realistiche per lo streetball in NBA 2K, dopo due anni tra acquari giganti, tetti di grattacieli, fonderie e portaerei, non posso certo apprezzare il ritorno di un fastidioso bug che l’ha fatta da padrone nell’edizione 2K15, ovvero il crollo di framerate dovuto all’abnorme quantità di elementi da mostrare e animare sullo schermo in qualsiasi momento. Nel momento in cui scrivo sembrerebbe risolto, ma rinunciando a parte delle ombre dei giocatori, perché modificare la profondità di campo non è un’opzione perseguibile in un gioco così pieno di sponsor reali, che esigono di essere mostrati su cartelloni pubblicitari ben visibili sui palazzi in lontananza, e conoscendo “i miei polli”, sento di non poter escludere categoricamente il ritorno di questo problema. Per il resto… è una modalità che fa il suo dovere. Ci si va per divertirsi e ci si può divertire, tra animazioni over the top, personaggi colorati e vari, sia per aspetto che per stile di gioco, ed eventi regolari in cui giocare con regole speciali o giocarsi discrete quantità di VC. Anche se questi ultimi - che non sarebbero neanche “Playground” vero e proprio, ma ne condividono lo stile - ogni tanto vengono rovinati dai server non sempre al meglio, per usare un enorme eufemismo.
In alternativa esiste il Walk On, in italiano ProAm individuale (per gli amici “ProAm dei poveri”), un 5 contro 5 a tutto campo ad entrata libera. È forse la porzione di Neighborhood meno importante, ma paradossalmente quella finora più stabile. Si entra, si gioca, e tendenzialmente funziona senza troppi intoppi, cosa che negli NBA 2K di questa generazione succede raramente, anche se è piuttosto preoccupante che la parte del gioco che funziona meglio sia quella su cui gli sviluppatori intervengono meno.
La differenza tra il ProAm dei poveri e quello dei meno poveri è la conoscenza tra i giocatori di una squadra. Se il Walk On spesso può metterci in squadra coi primi quattro scappati di casa che di pallacanestro non ne capiscono una beneamata, per accedere al ProAm, quello vero, ci vogliono quattro amici - in realtà ne basterebbero due, e due I.A. a completare il quintetto, ma per favore NO - e una squadra privata. E sul ProAm a squadre, a differenza del Walk On, 2K punta tanto da mettere la modalità al centro del suo progetto di eSports e della prossima NBA 2K League, ma come dicevo poco fa… le parti migliori di NBA 2K sono quelle su cui puntano meno. Dopo un mese passato a non poter personalizzare le divise - perché sulla carta sarebbe tutto bellissimo: logo, divise e campo personalizzabili nei minimi dettagli - e a doversi coordinare a suon di countdown per non essere portati ognuno in un campo diverso, la patch 4 ha corretto questi bug, insieme all’impossibilità di equipaggiare gli accessori sul nostro Il Mio Giocatore, ma ha creato, come ormai da tradizione, il piccolissimo problema da rendere ingiocabili le partite. Non intendo “bruttissime da giocare”, intendo proprio che, a ogni avvio di partita, si giocava a roulette russa sperando di non essere cacciati per fantomatici problemi di connessione poco prima della palla a due, e pure una volta arrivati non si poteva star tranquilli, perché talvolta si veniva cacciati per falli al secondo fallo... e, OK, forse sei falli sono troppi in partite da venti minuti effettivi, ma due mi sembrano pochini. Ne parlo al passato perché stavolta la cosa è stata risolta in circa una settimana, contro il mese - MESE! - di NBA 2K17, ma ne parlo perché c’è sempre una nuova patch dietro l’angolo e, si sa, nella roulette russa la pistola fa clic, clic, clic, e prima o poi fa bum.
Ho lasciato in ultimo un aspetto del gameplay esclusivo della modalità Il mio giocatore e che ne copre tutte le sotto-modalità: gli Eventi di gioco. Un assist è un evento di gioco. Una schiacciata è un evento di gioco. Una buona difesa, una palla recuperata, uno sfondamento preso, un tiro da 3, anche un tiro libero. Tutti eventi di gioco. Ogni evento ha un suo valore in XP, ed è grazie a questi che si può elevare il proprio giocatore da “buono” a “Giannis Antetokounmpo” (forse mi sarei fatto capire meglio dicendo “Michael Jordan”, ma ho guardato le prime partite della nuova stagione NBA e sono un po’ scosso). Il problema, qui, è che un tiro da 3 di un “tiratore puro” ha un valore - alto - uguale se a tirare è un “rimbalzista puro”, con la differenza che il rimbalzista, dopo aver rilasciato il pallone, si inginocchia a pregare gli dei del basket di fargli la grazia e fargliene segnare 1 su 100… ma lui ha tirato lo stesso, perché i rimbalzi valgono noccioline e vorrebbe livellare il suo giocatore a una velocità un po’ più vicina a quella del tiratore, che intanto se la ride sorseggiando un cocktail. L’idea di portare gli archetipi da 7 a 189 è stata ottima (perché chi pensa che i giocatori di pallacanestro siano divisibili in sole 7 categorie… conosce solo 7 giocatori di pallacanestro, probabilmente), ma dare lo stesso valore agli eventi di gioco di tutti gli archetipi obbliga circa 180 di questi a non giocare come dovrebbero e, in molti casi, vorrebbero.
È un problema risolvibile? Certo, basta una patch. Clic, clic, bum.
Facciamo così: io mi arrangio.
Tiro e prego.