Sette minuti dopo la mezzanotte arriva il Del Toro del discount
Il titolo originale di Sette minuti dopo la mezzanotte, A Monster Calls, fa apparente riferimento a una creatura fantastica che nasce da un albero, una sorta di Groot dopato a dismisura che passeggia fra le case e chiacchiera con il giovane protagonista utilizzando la voce di Liam Neeson (ma senza telefonate minacciose). L'impressione, però, è che sia un depistaggio e il vero mostro della vicenda si trovi da qualche parte fra il lutto, il senso di colpa, l'agonia del rimpianto, l'impossibilità di trovare il senso in una tragedia che ti colpisce come un martello e la difficoltà, appunto, mostruosa con cui un bambino affronta i meccanismi complessi della propria mente. È il cuore del film, il suo aspetto emotivamente più forte, oltre che quello attorno a cui ruotano per intero la vicenda e il mistero centrale, svelato solo nei minuti finali ma prevedibile e sempre più chiaro mano a mano che ci si avvicina a quella conclusione così forte. Ed è l'aspetto più riuscito del nuovo film di J.A. Bayona, qui più che mai Guillermo Del Toro del discount, non all'altezza ma comunque apprezzabilissimo.
La vicenda parla di Conor (Lewis MacDougall), un bambino alle prese con una famiglia disfunzionale e prossima alla tragedia. Il padre (Toby Kebbell) è per lo più assente. La nonna (Sigourney Weaver) è una figura autoritaria e temibile. La madre (Felicity Jones) è l'ancora del bambino ma è afflitta da una malattia grave che tiene l'intera famiglia in ostaggio. All'interno di questo contesto, Conor instaura un rapporto con una creatura fantastica, il giga-Groot di cui sopra, che sembra avere qualcosa di importante da svelargli ma ci gira attorno raccontandogli aneddoti bizzarri, strane fiabe dalla morale non troppo nascosta. Ovviamente, l'albero gigante di Liam Neeson fa da metaforone bipede delle difficoltà che Conor sta affrontando, in una sorta di processo introspettivo fantastico che Bayona, come da tradizione, prova a mantenere in equilibrio tra realtà e fantasia. La natura del mostro gigante, infatti, sembra evidente abbastanza in fretta, ma fino all'ultimo spuntano dubbi, indizi, elementi all'insegna del "E se fosse vero?" Vai a sapere.
Questo miscuglio di suggestioni dà vita a un film che non trova mai la forza espressiva del miglior Del Toro (Il labirinto del fauno, per capirci) e rimane forse un po' incastrato a metà, nel suo essere troppo cupo per i più piccini e troppo bambinesco per i più grandicelli. Nel mezzo, però, c'è tanto di buono, innanzitutto nella maniera intensa ma delicata con cui affronta i suoi temi difficili e in cui tratteggia i rapporti famigliari, permettendo ai vari personaggi di scrollarsi di dosso i cliché di partenza. Ma ci sono anche delle belle soluzioni visive, magari non tanto nel tripudio di computer del mostro, sicuramente nello stile quasi da acquerello animato con cui vengono messe in scena le fiabe che racconta. E, soprattutto, c'è un approccio al tema della perdita non banale, che si risolve in un concetto centrale capace di andare oltre la semplice elaborazione del lutto e di dire cose non semplici, piuttosto forti, che non è facile affrontare ma hanno il sapore di una verità netta, amara, travolgente. È proprio lì, dopo una parte centrale forse un po' faticosa, che il film esplode, magari sbracando in una messa in scena esagerata e pacchiana, ma raccontando una presa di coscienza conclusiva che sa davvero colpire allo stomaco.