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Neo Yokio è brutta ma ci vivrei

Neo Yokio è brutta ma ci vivrei

Qualche sera fa, mi trovavo per l’ennesima volta in uno stallo da binge watching, uno di quei momenti - piuttosto comuni tra gli spettatori compulsivi - in cui ti sfilano una serie da sotto il culo proprio quando sei convinto di avere da parte ancora un paio di episodi (in genere, la colpa è dell’ingannevole voce “trailer e altro” di Netflix).

Avevo appena terminato la visione dell’ultimo stra-fregno multidimensionale episodio della seconda stagione di Rick and Morty e non avevo voglia di andare a nanna. Di solito, in quei momenti mi si parano davanti due strade: o attacco qualcosa di nuovo, del tutto a caso, oppure riprendo in mano qualche serie che avevo lasciato indietro per ragioni dimenticate, salvo poi ricordarmela, la ragione (in genere nefasta), dopo dieci minuti di visione.

L’altra sera si è verificata la prima evenienza: i signori di Netflix mi hanno sparato in faccia la locandina virata al rosa di un “Original” d’animazione, Neo Yokio, e da bravo servo del marketing ho bovinamente premuto play. A onor del vero, devo dire che la serie in questione si presentava malissimo fin dal trailer, tant’è che e avevo deciso di buttarmici più per la morbosità verso il brutto che per altro.

Sempre a onor del vero, anche l’attacco mi era parso abbastanza schifoso. Attraverso una sequenza che scimmiotta l’estetica di una VHS mezza smagnetizzata, con tanto di rapporto in quattro terzi e scanline tarocche, la voce fuori campo introduce setting e premesse della storia: una New York da eucronia - la Neo Yokio del titolo - verso la fine del diciottesimo secolo è stata presa a calci da malvagi demoni dalle origini sconosciute. Per metterci una pezza, la città ha accolto dei clan di esorcisti provenienti dalla vecchia Europa (volgarmente detti “acchiappatopi”) che, dopo aver sistemato le cose, hanno preso a scalare la buona società locale, arrivando a formare la cosiddetta “magistocrazia”. Da lì, flashforward fino ai giorni nostri (sempre eucronici, beninteso) dove facciamo la conoscenza del protagonista, il frivolo Kaz Kaan, rampollo della magistocrazia, servito e riverito da un robot maggiordomo dalle fattezze di un Gundam, e più interessato agli svaghi che alla caccia ai demoni.

Il nostro giovane e svogliato acchiappatopi conduce una vita superficiale votata alle apparenze, un po’ alla Gatsby, ciondolando tra un cocktail party e una boutique, impegnandosi tutt'alpiù nelle avventure sentimentali con la fashion blogger Helena St. Tessero, nelle scaramucce con le gang di gentleman rivali, o negli sport da fighetti.

Ora, devo ammettere che raramente mi sono trovato davanti a qualcosa di più strambo e controverso: la serie è occidentale ma disegnata in uno stile anime low-fi a metà tra classici anni Novanta come Ranma ½, Marmalade Boy (Piccoli problemi di cuore) e Sailor Moon (la serie di Naoko Takeuchi, in particolare, domina anche a livello di struttura narrativa), e gli hentai in flash che giravano su internet qualche tempo fa. Insomma, diciamolo, si vende malissimo. Eppure, per qualche ragione, è riuscita a tirarmi dentro col suo fascino strampalato. Saranno state le architetture art déco o le musiche (classiche o rivisitazioni delle stesse). Sarà che un’operazione del genere non l’avevo ancora vista. Per capire se quella che avevo davanti fosse una truffa o una genialata, ho anche cercato qualche informazione online. Beh, scartabellando, ho trovato pochissima roba, ma da IMDB son venuto a sapere che dietro allo sviluppo della serie c’è Ezra Koeni, frontman della band indie Vampire Weekend (a me sconosciuta, lo ammetto), accompagnato da un cast di doppiatori sorprendente: Jaden Smith (Kaz Kaan), Jude Law (Charles), Susan Sarandon (zia Agatha), Jason Schwartzman (Arcangelo Corelli), con comparsate qua e là di Steve Buscemi, Stephen Fry, Ray Wise e il compianto Frank Vincent, attore feticcio di Scorsese scomparso lo scorso 13 settembre. Così, vuoi per il cast, vuoi per le ambientazioni e le citazioni pop (ché ci casco sempre), alla fine mi son fatto prendere la mano e mi son bevuto i sei episodi nel giro di un paio di sere.

Citazioni da Sailor Moon, si diceva.

Difficile tirare un fuori un giudizio minimamente oggettivo su Neo Yokio, sospesa com’è tra la presa per il culo e l’opera di pop art. Dietro l’apparente leggerezza, la serie di Koeni è una bestia strana: fortemente politica, usa l’estetica anime che ha accompagnato l’infanzia dei trenta-quarantenni di oggi come cavallo di troia per parlare della superficialità di certi stili di vita, del terrorismo (viene addirittura evocato lo spettro degli attentati al World Trade Center), del classismo, del razzismo declinato anche nell’antisemitismo, nonché delle distorsioni generate dall’ossessione per la popolarità e dall’utilizzo sconsiderato dei social media (metaforizzati, questi ultimi, dalla torre col ranking degli scapoli d’oro che troneggia a Times Square).

La stessa magistocrazia non è altro che un’allegoria della popolazione ebraica newyorkese, presentata in perenne conflitto con i WASP “purosangue”. I riferimenti sono ovunque: dal robot che serve il protagonista, sorta di moderno golem, all’ostentata ossessione di zia Agatha per il denaro.

Il “golem”.

La cosa non sorprende: da quel che leggo su Wikipedia, Ezra Koenig ha trascorso l’infanzia nell’Upper West Side di Manhattan, prima che i suoi genitori si trasferissero nel New Jersey, e la sua famiglia vanta origini ebraiche in seno alla Romania e all'Ungheria.

Passata la leggerezza dei primi episodi, la serie lascia il campo a situazioni via via sempre più drammatiche, pur senza perdere il suo tocco naïf. I sottotesti vengono svelati, le certezze ribaltate e la città entra di nuovo in contatto con i demoni (che è un modo carino per dire terroristi). La fashion blogger Helena St. Tessero, dopo essere stata vittima di possessione maligna, si desta dalla sua superficialità e rimette in discussione l’ordine delle cose. A questo proposito, vale la pena di segnalare che la voce di Helena è quella dell’attrice e scrittrice Tavi Gevinson (già tra i protagonisti di Person to Person, visto a Locarno), che ha iniziato la sua carriera giovanissima proprio come curatrice del fashion blog Style Rookie, successivamente trasformatosi nel più maturo magazine Rookie, oggi impegnato, tra le altre cose, sul fronte del femminismo, con contributor d’eccezione quali Judd Apatow, Lena Dunham o Joss Whedon.

Parallelamente alla maturazione della serie, anche il commento sonoro si fa sempre più sofisticato, così come il gioco di citazioni e rimandi: Ranma ½ e Sailor Moon lasciano il posto a F.S. Fitzgerald, Baz Luhrmann, William Blake (la parola d’ordine del night Tiger Club è “Fearful Symmetry”) e Salinger, passando per Ayn Rand e, conseguentemente, per le visioni di Ken Levine (tutta la quattordicesima strada, completamente sommersa dall’acqua, sembra uscita da BioShock). Queste evenienze influenzano retroattivamente anche la percezione di disegni e animazioni. La sciatteria grafica, con quei colori così sparati, acquisisce il valore di un’operazione artistica consapevole e dalla dissonanza tra il tratto grossolano e la qualità del doppiaggio, emerge un senso di totale sbandamento, che ribadisce la freschezza e l’originalità di Neo Yokio, emancipandola da tutta la roba postmoderna fighetta che gira oggidì.

In definitiva, questa serie è una di quelle robe che si amano o si odiano nella maniera più netta possibile. A me è piaciuta, ma non sono stupito dalle pessime recensioni che leggo in giro (né posso biasimarle). Comunque Frechete, appunto.

Frechete_TV.png

Neo Yokio è disponibile su Netflix dallo scorso 22 settembre. Come ho scritto, me la sono sorbita in un paio di sere (si parla di soli sei episodi da mezz’ora ciascuno) e alla fine mi è piaciuta: ci ho visto dentro di tutto e ci ho letto di tutto. Mi rendo conto che si tratta di una serie davvero controversa e che si presenta malissimo: mentre scrivo queste righe il pomodorometro la dà al 14%. Oh, magari mi son fatto infinocchiare! Resta che una roba così, a prescindere, non l’avevo ancora vista

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