Racconti dall'ospizio #125: God of War II e la catarsi nello sterminio dei propri miti
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
I racconti e i personaggi della mitologia cattolica non hanno mai avuto grande presa su di me. Troppo irrealistici, con narrazioni contrastanti e scarso approfondimento psicologico da parte di un narratore troppo impegnato, anche giustamente, a santificarne le gesta più che a cesellare il carattere di personaggi e situazioni. Storie bidimensionali e lontane da noi nella loro sfacciata sacralità. La mitologia greca, invece, era un’altra cosa: racconti su racconti di eroi truzzi e pompati che combattono per le più futili ragioni, quando non sono occupati a copulare con più o meno qualsiasi cosa capiti loro a tiro. Vuoi mettere la potenza narrativa di un Ulisse? Oppure la tragica esistenza di Achille, la sua ira funesta per la morte di Patroclo con successiva trasformazione del Pelide in una macchina da guerra ammazza-troiani? Praticamente, è Goku che si trasforma in Super Saiyan dopo la morte di Crilin, solo tremila anni prima di Akira Toriyama.
A pensarci bene, qualsiasi storia umana è già stata raccontata in qualche modo fra Iliade, Odissea e compagnia cantante. E sopra a tutte queste vicende umane si stagliavano gli dèi, veri protagonisti dell’epopea greca e latina. Capaci dei migliori slanci altruistici quanto del più becero egoismo. Così generosi e saggi, ma anche e soprattutto stronzi, puttanieri, sadici e vendicativi anche senza ragione, gratis et amore dei. Gli dèi greci sono personaggi del tutto credibili e sfaccettati, così vicini a noi nonostante l’onnipotenza. Divinità così umane non si sono mai viste nella cultura occidentale. Anche se la fede non è mai stata il mio forte, ho sempre trovato che i greci sapessero scrivere molto meglio i loro personaggi, e grazie anche all’indottrinamento di cinque anni di liceo, questi personaggi e queste situazioni, spesso quasi tarantinane, hanno per me assunto una loro blasfema sacralità, cristallizzate nei passi di greco e latino da tradurre come compiti a casa e nella lettura metrica delle loro gesta. Zeus e la sua genealogia mi stavano molto più simpatici di Gesù e i suoi amici, troppo perfetti e precisini per un mondo chiaramente molto più prosaico.
Scoprii il primo God of War solo qualche tempo dopo la sua pubblicazione in Europa, forse anche a causa di un lancio un po’ in sordina. Il gioco cominciò a spuntare su articoli, a vincere premi e scalare le classifiche online. Gli diedi una chance e non me ne pentii. Mi cinse col suo abbraccio tragico e sanguinolento, facendomi vivere una storia che poteva essere venuta fuori dritta dritta da una tragedia di Eschilo, con la violenza finalmente rappresentata a schermo e non sottintesa come in gran parte delle rappresentazioni teatrali. E senza un coro che cantilenasse a sproposito, per fare lo spiegone a vecchi e distratti. Una storia classica ma ben scritta, che sarebbe stata bene fra tutti i miti che avevo tradotto negli anni precedenti. Ragazzi, oggi parliamo del mito di Kratos… sì, la mia prof avrebbe potuto tranquillamente dire qualcosa del genere, prima di attaccare a parlare per venti minuti, con gli occhi ancora gonfi di commozione e brividi bene in vista sul suo braccio cicciotto.
Attesi con ansia il secondo capitolo, che sarebbe uscito di lì a poco e che si manifestò nel marzo del 2007, sotto forma di un file iso NTSC pronto da masterizzare. State calmi, avrei poi comprato l’edizione italiana del gioco, materializzatasi qualche mese dopo nel mio negozio di fiducia, ma non avrei mai potuto aspettare. God of War II faceva tutto quello che faceva il suo predecessore, ma meglio e più in grande: se la battaglia iniziale contro l’idra, presente nel primo capitolo, dava un’eccellente antipasto di quello che sarebbe stato il resto dell’avventura, in God of War II l’assalto al Colosso di Rodi, che costituisce l’antefatto agli avvenimenti, era una roba da lasciare completamente senza fiato. Un senso di scala mai visto prima, forte quanto e più che in uno Shadow of Colossus. Un omino di taglia umana in grado di arrampicarsi, sventrare e distruggere una statua di dimensioni gigantesche, una delle sette meraviglie dell’era antica. Uno scempio quasi blasfemo nei confronti di tutto ciò in cui credevo e che avevo studiato negli anni precedenti. Faceva quasi male abbatterlo e ogni colpo sferrato era un minuscolo ago sulla pelle delle mie di braccia, quasi come se Kratos stesse attaccando me, anziché il bronzeo colosso. E non poteva che peggiorare, perché da lì in poi il guerriero spartano, una volta capito che tutti fuorché Atena lo vogliono morto, parte per una sanguinosa crociata nei confronti di più o meno ogni eroe e divinità maggiore o minore che abbia popolato le mie versioni di greco.
Il mio personalissimo punto di svolta è da qualche parte a metà gioco, quando Kratos affronta Teseo e, per porre fine alle sue sofferenza, gli incastra la testa in un enorme portone, procedendo poi a sbattere con forza l’anta sul suo eroico cranio, in un’estasi di sangue e sfere rosse. Per il giocatore è un button mashing infinito, con l’animazione che si interrompe e il gioco che va avanti solo quando si smette di schiacciare il pulsante ossessivamente. Io questo però non lo sapevo e, in preda alla stessa collera di Kratos, spammavo il cerchio del joypad con furia. All’inizio era quasi doloroso, in fondo stavo schiacciando violentemente fra due porte la testa di Teseo, fra i fondatori di Atene e, quindi, buona parte della cultura occidentale. Dilaniato dal senso di colpa, pensai a cosa avrebbe detto di me la mia prof se mai l’avesse saputo. Ma col tempo il dolore si trasformò in subdolo piacere e poi in catarsi, mentre il sangue continuava a zampillare copioso dalle tempie del malcapitato eroe, che aveva osato interporsi fra Kratos e il suo obiettivo finale. Ogni colpo assestato, un brivido di liberazione dall’oberante bagaglio culturale e fideistico di cinque anni di liceo, insieme a una voce nella testa che mi urlava di uccidere il passato, manco fossi un Kylo Ren qualsiasi.
Solo quando, qualche minuto dopo, estenuato, lasciai la presa sul joypad, Kratos assestò un ultimo calcio alla porta, spalancandola e mandando in frantumi il corpo di Teseo. Il passato era morto e miti e divinità sembravano improvvisamente più vicini e umani, come in fondo erano sempre stati. E non vedevo l’ora di mettere le mani su Zeus.
Questo articolo fa parte della Cover Story su God of War, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.