God of War: Ragnarok - Kratos cammina con me
Qualche tempo fa avevo letto questa battuta di John Cleese su Twitter, prima che si rincoglionisse definitivamente e si desse al populismo boomer più sfrenato, che recitava più o meno così: “Come fai a dire che qualcuno è vegano? Non preoccuparti, te lo diranno loro. Ancora e ancora. E ancora”. E a rileggerla ora, in fondo, il rincoglionimento attuale non deve stupirmi così tanto. Sta di fatto che ho sempre pensato che la stessa cosa si potrebbe applicare a tante altre classi di persone. Tipo chi ha fatto il classico.
BUMM! Eccola qui, la profezia si avvera, ve l’ho detto io senza che chiedeste niente. E almeno nel mio caso non è questione di spocchia o presunta superiorità: è questione di metabolizzare i traumi. O almeno così mi piace pensare.
Traumi come essere costretti a tradurre tutti i santi giorni dal greco le storie di questa mandria di divinità che non faceva altro che litigare e scopare dalla mattina alla sera. A un certo punto arrivi a conoscerli bene, visto che hai più a che fare con loro che con gli amici. Alla fine, finisci per odiarli, brutalmente.
Scoprire quindi dall’internet in quegli anni lì che in Nord America è uscito un gioco per PlayStation 2, di cui parlano tutti, in cui non solo meni mazzate senza senso ma lo fai anche per sventrare il pantheon olimpico, fu un colpo di fulmine scontato. Scaricato subito (in Europa sarebbe uscito e l’avrei comprato solo qualche mese dopo), masterizzato con amore su un DVD Dual Layer (tutto quel sangue non sarebbe mai entrato in soli 4.7 GB) e inserito nella PS2. Ne sarebbe uscito solo molte ore dopo, consumato nei limiti del fisicamente possibile ("Cod [sic.] of War" anyone?).
Fu subito furia, poi catarsi, infine amore. La sensazione adolescenziale di riuscire a uccidere il passato, rompere con schemi, forme e comportamenti pre-costruiti. Uccidere brutalmente gli dei, virtuali e metaforici, e spargere il loro sangue come nuova linfa per costruire qualcosa di nuovo. Ad ogni modo fu il gioco giusto, al momento giusto per la persona giusta e nonostante la lunga pausa che Kratos si è preso, continua ad esserlo anche oggi che ho esattamente il doppio degli anni che avevo quando cliccai su “God_of_War_USA_PS2-ECHELON.torrent”.
Scomparsa la rabbia tardo-adolescenziale e l’odio per le versioni di greco dei primi tre capitoli più vari pregevoli spin-off, Kratos è tornato qualche anno fa come “Dad of War”, più posato, maturo e alle prese con un pantheon diverso che cerca disperatamente di non sterminare come ha fatto con l’ultimo. Ce la mette tutta a cercare di stare tranquillino nella sua baita di montagna, ma niente, ‘sta gente a volte vuole proprio essere trucidata e quindi che fai? Ti tiri indietro? E quindi giù di deicidio anche qui, ché immaginare un God of War senza squartamenti è un po’ come immaginare un mondo senza capitalismo. Ma chiunque abbia giocato al God of War del 2018 sa bene che il fulcro della narrativa non è più lì, ma nel rapporto di Kratos col figlio, Atreus, recentemente orfano di madre. Atreus è un ranocchietto quattr’ossa e un bicchiere di sangue in preda alle stesse turbe adolescenziali che avevo io quando giocai alle prime sanguinose avventure del padre.
Kratos è un padre, alle prese non più con le versioni di greco di terza liceo, ma con un figlio scosso e impaurito nonostante, fra le possibili interpretazioni, Atreus possa significare “senza paura”. Kratos è cresciuto con me, e manco a farlo apposta, proprio mentre la gente intorno a me comincia a sfornare figli come se non fossero i loro, *SBAMM*, ti ritrovi sto cristone di due metri tutto muscoli ad accompagnare Atreus al cinema e al pub con la macchina così può vedersi con gli amichetti.
A Santa Monica Studios, che ha lavorato a tutti i God of War principali, va dato atto di aver realizzato una delle migliori “girate di frittata” narrative della storia dei videogiochi. Non era semplice attualizzare un personaggio come Kratos: ruvido, arrabbiato, un po’ stronzo. Poco caratterizzato e perlopiù stereotipato nella sua rabbia infinita verso tutto e tutti. Un personaggio datato su tanti fronti e che non avrebbe avuto molto spazio nelle produzioni moderne; e invece, eccotelo qua, appesantito dagli anni e da un matrimonio finito nel migliore dei modi tutto sommato, ovvero con la morte di uno dei due sposi. Più saggio e compassato tranne quando gli partono i cinque minuti o gli toccano il figlio.
Il "nuovo" Kratos mi è subito piaciuto molto e continua a piacermi in Ragnarok: le velleità adolescenziali sono ormai lontane (le mie come le sue), ha raccolto i cocci di quel che poteva salvare, ha messo su famiglia e la rabbia che cova in seno è molto più sotto controllo. L'avrete capito, nonostante lui sia un marcantonio di due metri e io un gracile nerd occhialuto, mi sento molto vicino a lui in passato come ora. Ed entrambi abbiamo dovuto affrontare il greco antico.
Cosa dirvi di Ragnarok che non abbiate già letto in altri tremila articoli, considerando che questo verrà pubblicato quando ormai sarà passato un mese e più dall'uscita?
È il più classico dei sequel che pur giocandosela in maniera sicura, e perdendo parte dell'impatto iconoclasta dell'originale, migliora praticamente tutto il migliorabile e sistema quasi tutte le piccole e grandi idiosincrasie del suo predecessore. La varietà di enigmi, combattimenti e situazioni è migliorata sensibilmente, così come le possibilità di personalizzazione del giocatore. Anche se tutta la sovrastruttura RPG a base di equipaggiamento e di menù vari sembra sempre un po' appiccicata lì con la saliva perché "è un dannato tripla A e quindi deve esserci" e forse ne avrei fatto volentieri a meno in un gioco che fa della sua narrativa, cinematograficità e impatto visivo i suoi punti di forza. È sempre un po' straniante doversi mettere a smanettare con percentuali e numerini vari nel bel mezzo di ambienti apocalittici e ambientazioni fantastiche, specie quando i vantaggi di equipaggiamento e ninnoli trovati in giro non sembrano più di tanto impattanti. O, meglio, non sono impattanti quanto il "git gud" che il gioco richiede un minimo anche a difficoltà normale. Il combattimento mantiene lo stesso buon bilanciamento tra pesantezza (Kratos è pur sempre il cristone di due metri di cui sopra) e velocità (che venendo da Bayonetta 3 mi è sembrata elefantiaca ma tutto è relativo e dopo un po' mi sono abituato). Come e più del primo Ragnarok richiede anche un bel po' di cervello durante i combattimenti: gli elementi puzzle sono stati potenziati ed è importante saper scegliere il nemico giusto e le modalità giuste per abbatterli, il che non guasta specie considerando che l'originale perdeva un po' di mordente in là con la storia a causa di una certa ripetitività nei combattimenti.
L'unico passo indietro che ho constatato riguarda una questione di cui si è parlato tanto, almeno nei circoletti fisici e virtuali che frequento, ovvero il frequente ciarlare dei compagni di viaggio che Kratos porta con sé. Non mi riferisco al normale battibeccare di personaggi, fra frecciatine, lore vario o semplice puro piacere di parlare. Ragnarok ha un ottimo ensemble cast e una buona scrittura, gran parte dei dialoghi sono davvero piacevoli da ascoltare mentre si esplora il mondo di gioco. Ho solo davvero trovato strano che i personaggi trovassero il modo di spiegarmi più o meno esattamente cosa dovevo fare se stavo fermo a guardarmi in giro per più di qualche secondo. Che è perfettamente comprensibile se fossero passati due minuti a non risolvere un enigma, ma dieci secondi dopo? Datemi un po' di tempo per guardarmi intorno ché la testa non è più quella di quando avevo diciotto anni, su. Non fatemi sentire vecchio e lento!
Capisco le motivazioni di tutto ciò, per carità: i dati parlano chiaro, in media solo il 20-25% dei giocatori che ha iniziato un gioco lo finisce (assurdo, lo so) quindi mantenerli attaccati al gioco in un modo o nell'altro è diventato fondamentale per qualsiasi sviluppatore. E ovviamente il problema si acuisce per un gioco di circa trenta ore, costato centinaia di milioni e vari anni di sviluppo. Però così anche no dai, sarebbe bastato un modo per disattivarli in qualche modo, specie considerando che il gioco ha ottime opzioni di accessibilità per praticamente qualsiasi aspetto (e mega kudos per questo).
Dove Ragnarok però spinge definitivamente l'acceleratore fino in fondo, abbracciando i suoi punti di forza, è nel senso di scala che è riesce a trasmettere. Fin dal combattimento contro il colosso di Rodi nell'intro di God of War II, la serie è famosa per questi momenti in cui si percepisce appieno lo sforzo prometeico di Kratos contro forze soverchiantemente più grandi di lui. Una sensazione di disperazione quasi lovecraftiana che si mescola, in questo caso, anche con l'indubbia "power fantasy" data dall'impersonare letteralmente un dio della guerra. Santa Monica Studios ha probabilmente capito che questo aspetto è fondamentale e apprezzato, e in Ragnarok va anche oltre le classiche sequenze precostruite, infondendo di un inebriante senso di scala ogni aspetto del mondo: non solo combattimenti contro mostri enormi ma anche tutte le terre che Kratos visita propongono panorami destabilizzanti per proporzioni e grandezza: enormi muraglie, montagne impossibili, abissi infiniti, creature spesso anche benevole che si ergono dalla terra come se fossero colonne del cielo o astri pronti a schiantarsi contro il mondo, tutto contribuisce a infondere di personalità e meraviglia le ore passate col gioco. Si ha sempre l'impressione che il mondo non finisca nei confini dello schermo, ma esista di suo da sempre. L'elusivo concetto giapponese di "seikaikan", parola che racchiude la mia frase precedente, sembra raggiunto appieno e non è cosa semplice.
Sembra strano dirlo, ma non c'è nulla di male nell'esistenza di un tripla A del genere. In un'era in cui è chiaro che il sempre più esorbitante costo di sviluppo di titoli con queste ambizioni ha spostato l'onere dell'innovazione su giochi da un budget molto più risicato, non è lecito aspettarsi rivoluzioni da un gioco come God of War: Ragnarok. Fa il suo, lo fa molto bene, ed è responsabile di alcune delle migliori ore che ho speso per un videogioco nell'ultimo anno. Lo spettacolo è davvero mozzafiato con la combo PS5/TV OLED ma anche su PS4 sembra spingere al limite ogni singolo transistor come spesso accade per il canto del cigno di una console. Ma, soprattutto, riesce a regalare al giocatore trenta ore che volano via in tranquillità e senza stanchezza, al netto di un finale forse un pelo anti-climatico. Il tutto forenendo ai vari millennial come me la "power fantasy" definitiva: quella di volere e potersi permettere un figlio.
Dalla rabbia adolescenziale alle sfide della maturità, Kratos cammina con me. E spero che continuerà a farlo.