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28 giorni dopo - Quando l'immunità di gregge fallì

28 giorni dopo - Quando l'immunità di gregge fallì

Mi auguro che siamo tutti d’accordo nel dire che Alex Garland sia prossimo alla definizione di genio. No, non per quanto fatto con Devs, o almeno, non solo per quello.

Per la regia di Danny Boyle e scritto dal sopracitato genio Alex Garland, 28 giorni dopo non solo propone una fra le distopie più belle e brillanti di sempre, ma ha anche contribuito a riscrivere una parte fondamentale del paradigma su cui era basato il genere.

Concettualmente, non è troppo distante dai soggetti che lo precedettero; Inutile ribadire quanto la generazione Romeriana abbia controvertito il cinema non solo di genere, contribuendo a gettare quelle basi stilistiche presenti, ovviamente, anche in 28 giorni dopo. Tuttavia, il film di Boyle si concede non poche licenze poetiche. Gli infetti, esteticamente e biologicamente lontani dall’essere zombi, ci sono quanto basta per definire i tempi di tensione, altrimenti marginali e non eccessivamente funzionali alla logica che Garland cerca di proporre

Un virus – Rabies Lyssavirus – viene più o meno accidentalmente liberato da una struttura di ricerca da un gruppo di attivisti. Ne consegue la diffusione del patogeno nel resto del Regno Unito. Fine. Il virus è ovunque sull’isola di sua maestà. In questo prologo, ammiriamo l’intuizione registica di Danny Boyle – già sulla vetta del mondo dopo il generazionale Trainspotting e l’alquanto hipster The Beach – che ci mostra, attraverso veloci stacchi di montaggio, la struttura in cui stanno conducendo degli esperimenti comportamentali sui primati. Uno di questi è raffigurato attraverso una scelta estetica estrema e vagamente cyberpunk: legato su di un letto e obbligato a prendere visione della merda prodotta dall’uomo attraverso dei monitor; alla Blanka maniera.

Nonostante questa sequenza di apertura svolga apparentemente una banale funzione di contesto, ciò che realmente rivela è un crogiolo di accuse e sensi di colpa. Il virus esiste, ed è un fatto, così come i demeriti dell’uomo, giuria e boia, ma parassitario alla stregua del microrganismo che minaccia la sua esistenza sul pianeta. Il dito inquisitore non potrà mai essere puntato sulla scimmia, rea di aver morso e infettato il primo essere umano.

Risorto dal coma, un giovane e nudo Jim (Cillian Murphy) si muove in una Londra deserta, privata della sua pulsazione e della sua anima cosmopolita. Il caos materiale regna sovrano nel silenzio di una città metaforicamente morta. Tutto sembra essere stato abbandonato in fretta e niente, a parte i resti di quella fuga, popola le strade. Un campo lungo si orienta fra le pareti di una Oxford Street non dissimile dal resto della città; una gigantesca pubblicità della Benetton sullo sfondo (indice della natura primi anni 2000) e un memoriale con sopra affisse centinaia di fotografie raffiguranti volti a noi del tutto anonimi. La speranza, flebile, che qualcuno riconosca una di quelle facce. Il virus ha denaturato ogni cosa, persino l’imperturbabile quiete del tempio di Dio, trasformato nel lazzaretto in cui il protagonista conoscerà l’orrore. Movimenti disordinati, bava mista a sangue, orbite oculari iniettate. Questo è lo “zombi” di Boyle e Garland; ugualmente incapace di intendere e di volere, ma probabilmente mosso da quell’istinto primordio di violenza esclusivamente umano. Chissà, forse è il virus che cerca un modo per replicarsi.

Jim resta Incredulo e completamente terrorizzato dalla drammatica circostanza che lo circonda. Poi avviene il primo, fondamentale, incontro. I due superstiti che racconteranno il declino e la rovina spettata al popolo britannico in quei 28 giorni. Storie di fughe e di egoismo.

L’adattabilità allo scenario e la sopravvivenza sembrano essere gli unici fondamenti su cui è costretta a basarsi la vita di coloro che sono sopravvissuti, ormai completamente alla mercé del proprio istinto di autoconservazione. Doti comportamentali da cui Jim si riguarda: per lui, il vecchio mondo è ancora l’unico mondo. Ma i drammi che infestano questa nuova realtà sono lì, in attesa di tentare coloro che ancora rifiutano la consapevolezza. Una consapevolezza che arriva attraverso un’immagine straziante, la prima di tante. I corpi di quelli che un tempo erano la sua famiglia, privi di vita, suicidi. Una bottiglia di vino e diverse pasticche fiancheggiano il letto. Che senso ha vivere una vita che non merita di essere vissuta? Un figlio in coma fino alla morte e il mondo civile che crolla.

Ci viene quindi restituita Londra, nuovamente al buio. Quella che un tempo era una fra le città più grandi e prospere del mondo ci appare come un mausoleo della disperazione. Edifici bui e spogli, privi del loro significato originale. Poi una luce fra le tenebre. Un padre, una figlia e una speranza, ma quale? La famiglia, simbolo che i legami resistono al virus, o l’ipotetico rimedio all’epidemia, a quanto pare nelle mani dell’esercito nei pressi di Manchester?

Un’apparente e ritrovata tranquillità, la bellezza di una risata e la semplicità di un buon pasto. Le note di AM 180 dei Grandaddy ci accompagnano nella scena più leggera e allegra del film, in cui il gruppo fa letteralmente la spesa in un supermarket, dimenticando, almeno per qualche minuto, la cieca furia della fine del mondo.

La leggerezza di quei momenti viene nuovamente traviata dalla realtà circostante, quella in cui un virus della rabbia ha sgretolato la società e le sue contraddizioni. Ancora una volta, bisogna interrogarsi sul senso del nostro stile di vita, per molti idilliaco, comodo e sempre meno faticoso; ma al contempo sempre più pervadente e ostracizzante. Eravamo realmente liberi, prima che i nostri amici, i nostri famigliari, mutati in infetti, cominciassero a darci la caccia? Per quel che mi riguarda, no, non eravamo liberi, non come quella mandria di cavalli che corre libera, oramai priva di padroni umani. Le sequenze che conducono alle conclusioni sono le più semantiche del film. La morte di un padre e la presunta salvezza. Ma laddove ci sono uomini, dove per uomini si intendono maschi adulti, le sorti di una donna e di una ragazza sembrano deviare verso le più orribili carnalità. Quei soldati, comandati da un notevolissimo Christopher Eccleston, costituiscono, senza troppe iperboli, la personificazione fisica di tutto ciò che c’è e c’era di sbagliato al mondo. La mia non vuole essere una gogna, ma l’immagine che Garland e Boyle ci mostrano è chiara e schietta. La violenza, qui espressa senza neppure ricorrere a futili muscolarismi, è ancora una volta semantica. Apparentemente, non esiste più alcuna autorità, se non la loro. Visualizzare un gruppo di venti uomini, militarizzati, esasperati e sì, anche arrapati, non comunica sicurezza, ma l’esatto opposto. Eccleston esprime un pensiero fondamentale per la comprensione generale del film, un pensiero che riesce a definire perfettamente la paternità sociale dell’opera: gli esseri umani si uccidono da sempre. Oggi continuano a farlo esattamente come prima. Persone che uccidono persone. L’unica vera costante universale.

L’epilogo è caos puro. Jim si adatta alle regole del mondo e noi, umili spettatori, comprendiamo ancora una volta la differenza, quasi dicotomica, fra la rabbia causata dal virus, e la cattiveria, genetica, dell’uomo.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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