A Scanner Darkly e la tossicodipendenza in rotoscope
Fin dalla prima visione di A Scanner Darkly, pellicola firmata Richard Linklater e rielaborata sull’omonimo racconto di Philip K. Dick, ho pensato che il rotoscope fosse la fotografia perfetta per rappresentare la tossicodipendenza. Le sue aberrazioni prospettiche, innaturali, incapaci di trasmettere la giusta profondità di campo, visiva quanto emotiva, di un mondo così colorato ma tragicamente vuoto dentro i suoi contorni calcati, spessi. Come se tutto fosse di cartone, involucro superfluo privo di contenuti, di importanza. Il cervello che pensa solo a calarsi la prossima dose di Sostanza M (D in inglese, o qualsiasi altra lettera che sia iniziale di Morte), pillola rossa senza pillola blu, M come ultima lettera di un alfabeto monco, incompiuto come chi è costretto a dividere la giornata in grammi e non in minuti. “Persone che hanno pagato troppo per i loro piccoli errori”, come nella dedica di Dick ai suoi amici, scomparsi o irrimediabilmente cambiati, mutati, rivoltati. Persone come Bob Arctor.
Scegliere la vita e rimanere comunque in trappola, sotto copertura tra i suoi stessi amici, prima che tossici, per risalire il fiume della sostanza e scoprirne la sorgente, bevendone l’acqua contaminata e diventandone a sua volta schiavo, facendo partire un inesorabile countdown di cellule cerebrali verso la scissione del nucleo, del cervello stesso. I due emisferi fuori sincrono, come un pianeta e la sua luna che smettono di orbitare all’unisono; due trottole a fine corsa, impazzite prima della caduta nel vuoto assoluto. Le allucinazioni indistinguibili dalla realtà, niente CGI, solo schizofreniche e grottesche interpolazioni tra veglia e immaginazione, in un’unica animazione. Reeves è straordinario nel gestire il crollo verticale del suo personaggio, assuefatto, asfissiato dall’indagine e da un modus operandi della polizia che obbliga gli agenti a vestire una tuta speciale per proteggere la propria identità dai colleghi; capace di generare connotati e toni di voce in maniera casuale di secondo in secondo, restituendo un’immagine di sé in perpetua metamorfosi, disumanizzante, frammentata; una playlist in shuffle.
La totale perdita di personalità, dall’anonimato lavorativo alla recita nel privato, aggrappato solo al barlume di un passato felice, due bimbi “alti così” e una bella moglie, persi, o forse incontrati solo nei suoi deliri, beate visioni. È come quella casa, disordinata, sporca, perennemente avvolta dal tanfo di vomito e urina, eppure collocata in un bel quartiere, costruita su due piani, un giardino che avrebbe potuto ospitare i barbecue della domenica tra vicini. Un rimpianto in cemento e carta da parati scadente, strappata, rappresentazione fisica di quella che sarebbe potuta essere una vita normale, ordinaria, anche noiosa, perché no, lontana dalla dipendenza, da quel nirvana sintetico che all’ingresso chiede in pegno il futuro e tutte le sue infinite possibilità.
Ad insinuarsi è la paranoia di quello che non si sta godendo la “festa” mentre tutti gli altri danno di matto, circondato da un terzetto di squilibrati come Robert Downey Jr., Woody Harrelson e Rory Cochrane. Reeves/Arctor fino a un certo punto ancora tragicamente lucido, consapevole, determinato a concludere un’indagine nonostante percezioni sfilacciate e un’emotività ormai alla deriva, per poi scoprirlo usato, coscientemente e indirettamente indotto alla lobotomia chimica dai suoi stessi colleghi per poterlo infiltrare nel centro di riabilitazione New-Path, associazione filogovernativa che si capirà, nello struggente cliffhanger, essere la carcassa che sta avvelenando la sorgente.
Un colpo di scena devastante che sottintende una critica feroce nei confronti dello stato, un collaborazionista che spreme i tossicodipendenti fino all’ultima dose, convulsione, respiro, in pasto a questo mercato d’anime, economia sommersa il cui contrasto sembra troppo spesso una farsa, resa credibile solo dalla lotta di chi pensa davvero di poter fare la differenza; un bell’abito che fa sembrare onesto anche l’essere più abominevole. Bellissimi fiori indaco che crescono negli angoli più bui della società, dove noi non vogliamo volgere lo sguardo; il gambo reciso, colti per essere macerati, tagliati col cherosene, incapsulati e serviti alla tavola dello spaccio, alimentando il business crisi d’astinenza dopo crisi d’astinenza. Un parallelo con un altro celebre fiore, quello che simboleggiava la libertà in Fuga da Alcatraz e che qui assume il significato opposto.
Il campo in cui Arctor, nell’ultima scena, si trova immerso a lavorare, mare floreale, sembra rappresentare una per una, petalo dopo petalo, tutte quelle vite di gente annegata. Alla loro vista i neuroni si illuminano, un barlume di lucidità, e riescono a fare un ultimo collegamento; un esemplare raccolto dolcemente uno e nascosto nello stivale, per essere poi recuperato dai suoi colleghi come prova schiacciante, compiendo un lavoro doloroso e possibile solo attraverso il sacrificio, probabilmente l’unico modo per aggirare un sistema corrotto nel midollo. E nonostante gli strati di rotoscope sul viso, gli occhi di Reeves raccontano sempre tutto, il dramma nella psichedelia, il vuoto nella tagliente parlantina, il desiderio spento dalla coca nelle notti passate con Donna Hawthorne (Winona Ryder), non sospettando minimamente della sua identità.
Se è vero che la mia conoscenza della tossicodipendenza è totalmente teorica, sospesa tra cronaca, documentari e finzione, penso che A Scanner Darkly, più di Trainspotting e forse anche del bellissimo Requiem for a Dream di Aronofsky, riesca a descrivere il fenomeno con un’eleganza che tradisce le sue origini, quelle di una penna tanto sensibile quanto sfacciata come solo Dick sapeva fare, dando vita a un romanzo dai contenuti estremamente autobiografici. Gli stessi occhi di Arctor, le stesse situazioni vissute e un destino che non è stato il medesimo per puro caso. Guardare la pellicola di Linklater come scrutare dall’ombra lembi di esistenza di uno dei più grandi geni letterari del ‘900, condividendone, almeno in infinitesima parte, la drammaticità.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Keanu Reeves, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.