Ape Escape ti costringeva a titillare il pad | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Era il 1999, vent’anni fa. Avevo dieci anni e, con un amico, misi le mani sul primo Ape Escape. Glielo aveva procurato il padre, spacciatore di giochi scontati in quanto lavoratore presso una catena di supermercati. Subito lo sgomento: in Ape Escape eri costretto a usare entrambe le levette analogiche. Quegli strani affari in gomma nera con la punta tipo naso di cane. Noi bimbi, già rompipalle old school, che «No, si usano le freccette come sul NES, cosa sono sti capezzoli neri?»
Sì, perché il gioco era sviluppato e distribuito da Sony, faso tuto mi, e insomma, c’era un DualShock da vendere sia a chi non aveva ancora comprato una PlayStation, sia a chi lo aveva fatto praticamente al lancio. Ed ecco l’uscirsene con un gioco in cui con l’analogico sinistro muovevi il personaggio e con il destro agitavi il suo retino cattura-scimmie. Scimmie dotate di caschetto che le rendeva intelligenti, in fuga attraverso il tempo per colpa di Specter, primate albino anch’egli accresciuto cerebralmente da un copricapo fantascientifico. E ci vuole poco, a voler conquistare il mondo, se hai passato la vita nella gabbia di uno zoo.
Nei vari livelli, toccava quindi recuperare le scimmie da riportare al loro posto. Ognuna si nascondeva, oppure si aggirava tranquilla in una zona dello stage, pronta a fuggire impazzita nel caso Spike le fosse passato a tiro.
Ape Escape era colorato, frenetico, mischiava platform e stealth, quando strisciavi alle spalle delle scimmie per non farti notare, pronto ad agitare questa benedetta levetta nera per usare il retino. Avanzando nei livelli, le scimmie si facevano più cattive, fino ad essere mortalmente armate. Il tutto impersonando Spike, ragazzino con la passione per i biscotti e per le pettinature inverosimili.
La trama era semplice ma devo dire che il suo essere piuttosto intrigante la rende ancora godibile ora che sono cresciuto, di quelle che vedresti bene in un film d’animazione. I vari filmati tra un livello e l’altro tenevano incollato me e il mio amico, che aspettavamo di scoprire in quale altra zona dello spazio-tempo saremmo finiti, prima di recuperare l’ultima scimmia e fermare una volta per tutte Specter.
Oltre al retino, c’era tutta una serie di gagdet che potevano essere assegnati ai tasti croce, triangolo, cerchio e quadrato. Ricordo bene la macchinina telecomandata che si infilava nei buchi e premeva i tastoni che aprivano gabbie, portoni, muovevano ponti… o l’elica che permetteva di volare e planare, per raggiungere le scimmie nei posti dove, bastardissime, si erano nascoste. Il livello che odiavo di più era quello con un lago enorme da attraversare in canotto giallo, muovendo gli analogici a ritmo come remi. Per uno che non sa nuotare, l’inferno, visto che un enorme pesce minacciava le acque. Gli incubi di un bambino di dieci anni.
Era comunque già il delirio del collezionismo e del completismo, con un tot di scimmie per livello e la gloria di scoprire mano a mano come catturarle tutte. Nei tempi in cui internet era agli albori e ancora si smaniava per trovare le soluzioni sulle riviste.
Ape Escape, sicuramente, è un gran candidato per i remake di questa generazione, e devo dire che non mi spiacerebbe affatto tornare a catturare scimmie. Anche perché la saga è durata altri due capitoli, più spin-off portatili e un’avventura anche su PlayStation 3, a colpi di Move. Sony non ha mai dimenticato il suo spacciatore di analogici e forse è tempo di rispolverare il retino. Gotcha!