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Carlito’s Way è il manifesto della vecchiaia

Carlito’s Way è il manifesto della vecchiaia

Arrivati a una certa età, è molto più facile voltarsi indietro che non guardare avanti – a maggior ragione di questi tempi. Si inizia a fare qualche bilancio e rendersi amaramente conto che qualcosa non è girata esattamente nel verso giusto e che i “bei vecchi tempi” se ne sono andati da un pezzo per non tornare mai più. Secondo me, deve averlo pensato anche Carlos Brigante, per tutti “Carlito” mentre passeggiava con Pachanga lungo le strade di Harlem, per rendersi conto che nei cinque anni in cui è stato dentro è tutto cambiato, e le nuove generazioni (criminali, in questo caso) non hanno ereditato nulla da quelle passate. “Questi giovani io non li riconosco: il mio quartiere non esiste più” pensava Carlito durante la visita al suo vecchio quartiere, dove una volta era considerato una leggenda.

Al contrario di quanto sostengono in molti, Carlito Brigante non va in cerca di redenzione. Non vuole cambiare vita perché si è pentito di quanto fatto prima. L’ex criminale portoricano è semplicemente stanco, non vuole più rischiare di tornare in prigione o di farsi ammazzare, vuole solo condurre una vita tranquilla, coltivando il sogno piccolo-borghese di trasferirsi alle Bahamas e rilevare un autonoleggio, magari con quella vecchia fiamma che aveva conosciuto prima di finire dentro. Un po' come volevano fare Aldo e Giovanni comprando un bar in Costa Rica in Tre uomini e una gamba.

Però, come accade spesso e volentieri, il passato che vorremmo lasciarci alle spalle torna a cercarci. “Non sono io che vado a cercare i guai, sono loro che vengono da me. Ci sarà pure un posto in cui nascondersi” pensa Carlito - in maniera un po' più colorita - dopo essere sopravvissuto a una sparatoria in una sala da biliardo gestita da spacciatori colombiani. Questo tema del passato da cui sembra impossibile allontanarsi – e con un destino già scritto – è centrale per tutta la pellicola. Per rimediare i settantacinquemila dollari necessari alla realizzazione del suo sogno, Carlito accetta di prendere in gestione El Paraiso, locale in cui la strada del protagonista si incrocerà con ex soci che tenteranno di trascinarlo sulla vecchia strada o addirittura di incastrarlo, e nuove leve della criminalità che vorranno inizialmente guadagnarsi il suo rispetto, ma di cui a Carlito non importa nulla. Anzi, nei loro confronti l’uomo prova un profondo disprezzo perché non vi si riconosce, e questo lo porterà a sfoderare gli artigli come un vecchio leone ancora grintoso. Oltre alla celebre sequenza finale ambientata alla stazione ferroviaria, ce ne sono due che mi sono rimaste particolarmente impresse e che ritengo memorabili. La prima vede Carlito scontrarsi con Benny Blanco, giovane spacciatore del Bronx che si crede già arrivato (ottimamente interpretato da un John Leguizamo che lo rende perfettamente insopportabile). Dopo averlo malmenato e trascinato fuori dal locale sulle note di That’s the way (I like it), fra i due c’è un intenso scambio di sguardi filtrato di rosso in cui il portoricano gli dice “Se ti vedo ancora entrare qui dentro ti faccio diventare cadavere così”, schioccando le dita. Rinuncerà poi a ucciderlo, intuendo già in partenza di fare un errore, perché non vuole rischiare di compromettere il suo sogno di una nuova vita.

La seconda scena è legata all’altro tema portante del film, il “codice della strada” composto da riconoscenza e lealtà nei confronti degli amici. Carlito si rende conto, poco a poco, che non può fidarsi più di nessuno. Dal vecchio socio Lalin, ormai ridotto su una sedia a rotelle, pronto a venderlo in cambio della libertà, al suo amico fraterno David Kleinfeld, avvocato della mala corrotto da avidità, droga e alcool, che lo porterà al punto di non ritorno dopo averlo coinvolto nell’omicidio del boss Tony Taglialucci e di suo figlio Frank, per arrivare a Pachanga, suo uomo di fiducia che lo venderà a Benny Blanco, perché ormai resosi conto che Carlito si è indebolito, e rimanendogli fedele non guadagnerà più nulla. Il nostro protagonista, dopo aver realizzato che la bravata di Kleinfeld gli costerà la vita, è seduto nel suo locale. Uno scarafaggio si muove sul bancone e lui lo intrappola con il bicchiere, alludendo alla sua situazione senza via di fuga. Nel mentre Sasso, ex gestore del locale, lo informa del doppio gioco di Pachanga, a cui il portoricano non vuole credere, dicendo che è un “fratello”, così come in precedenza chiamava Kleinfeld. E si lancia in un’amara riflessione esistenziale.

La sequenza finale che vede Carlito in fuga prima in metropolitana e poi su e giù per la stazione ferroviaria è di un’intensità pazzesca. Il vecchio leone sa che nonostante la stanchezza dovrà fare un ultimo disperato tentativo per realizzare il suo sogno, o quanto meno per consegnare a Gale il denaro necessario per allevare il bambino che aspetta da lui. Noi sappiamo già che non ce la farà, perché il suo destino è già stato mostrato nella sequenza iniziale del film, ma speriamo sempre che riesca a prendere quel treno.

Carlito’s Way è uno di quei pochi film che bene o male rivedo ciclicamente, l’ho sempre considerato una sorta di seguito spirituale di Scarface; al di là della coppia Pacino - De Palma che dona un certo senso di continuità, Tony Montana e Carlito Brigante sono due facce della stessa medaglia: Se Tony rappresenta un’idea distorta del sogno americano e puntava a prendersi il mondo, salvo poi cadere in disgrazia per salvare la vita a dei bambini, Carlito ha già terminato la propria carriera criminale, e desidera una nuova strada, arrivando a sentirla tanto vicina quasi da poterla toccare, sapendo comunque in cuor suo che certe cose sono praticamente impossibili da cambiare. “Questa è la mia vita. Io sono come sono, nel bene e nel male: non posso farci niente”.

Oltre a un Al Pacino come sempre gigantesco, merita di essere ricordato Sean Penn nel ruolo di Kleinfeld, che rappresenta quasi una sorta di Tony Montana al contrario: da semplice assistente legale con la pistola sempre a portata di mano a potente avvocato della malavita, la cui ingordigia lo porta a rubare un milione di dollari al boss Taglialucci per poi ucciderlo, diventando, come gli dirà Carlito, un vero e proprio gangster, ma senza conoscere le regole del gioco. Il suo personaggio ha ispirato la creazione di Ken Rosenberg di Grand Theft Auto Vice City.

L’atmosfera degli anni Settanta è fortemente presente nel film: la New York del 1975 fatta di guerre fra gang latine, droga e pistole resta sullo sfondo ma si percepisce in maniera costante, e la colonna sonora composta da pezzi stra-famosi come Lady Marmalade, You Should Be Dancing e Got to Be Real fa il resto. Nel 2005 è stato prodotto un prequel, Carlito’s Way – Scalata al potere, un prodotto dedicato esclusivamente al mercato home video che racconta (male, presumo) l’ascesa di Carlito Brigante. Mi sono sempre rifiutato di guardarlo, perché già dalla cover del DVD si vede che si tratta di una di quelle poveracciate fatte per tirare su qualche soldo sfruttando la fama di un film famoso, e finirebbe magari per rovinarmi anche la pellicola originale.

Stranamente nessuno ha mai pensato di farne un remake. Siccome so già che quel giorno presto o tardi arriverà, mi consolo riguardandolo e sperando che quel treno per una nuova vita, Carlito, riesca finalmente a prenderlo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli anni Settanta, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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