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DOOM - e su Marte campane a martello

DOOM - e su Marte campane a martello

Dirlo adesso suona stranissimo ma c’è stato un momento, nel mondo di prima, in cui giocavo ai videogiochi per la storia. Questo spirito che animava le mie sessioni di gioco non è cambiato di punto in bianco ma è stato una complessa presa di coscienza che non ha investito solo il videogioco, ma indistintamente il cinema, le serie TV, i libri e i fumetti. A un certo punto, dei personaggi non me ne fregava niente, vedevo la struttura, mi permettevo di ignorare i dialoghi perché sono e devono essere le immagini a parlare e tutto il resto è esposizione di una trama, già comunque sentita o ampiamente prevedibile. Se sono diventato un cacacazzi di dimensioni cosmiche probabilmente lo devo anche a Doom del 2016 (da adesso in poi soltanto DOOM).

A casa DOOM ci arriva per caso, per PS4, ripescato da un cesto dell’usato di Gamestop, così che un giorno possiamo tutti dire che Gamestop ha fatto anche cose buone.

Che altro dire? Era una mina, è una mina ancora adesso come lo era nel 2016, mi dispiace per tutti quelli che hanno provato ad imitarlo, anche per quel disgraziato di Eternal che è venuto immediatamente dopo a dover gestire il carico di aspettative di uscire dopo il Doom perfetto.

DOOM mentre lo giochi ti cambia la percezione. Quando entri nel flusso, ascendi un livello più altro di consapevolezza spaziale. Ti muovi negli ambienti inospitali dell’inferno e il padrone sei tu perché comandi lo spazio muovendotici attraverso. Quando entri in un’arena non vedi alture, piattaforme o scalinate, vedi rampe, piani, punti di elevazione. Una parte di te, quella rettile, probabilmente, sta già iniziando a calcolare tutte le possibili modalità con le quali attraversare quello spazio facendo più danni possibili nel mezzo a tutte quelle variabili che sono i nemici che ti arrivano addosso. Se non che ad un certo punto, quando quella consapevolezza spaziale raggiunge il suo apice, quando diventi puro spirito, scopri che il mostro sei tu. Un enorme Michael Myers pesantemente armato e corazzato che ha l’unico obiettivo di macinare quanta più carne demoniaca possibile. Nonostante la sproporzione numerica, perché loro sono animati da istinti di programmazione più bassa, ad essere in svantaggio sono loro.

DOOM premia l’approccio creativo, che non significa attaccare a testa bassa, ma sfruttare le tue risorse offensive nel migliore dei modi possibili.

Una sorta di gioiosa frenesia sanguinosa anima DOOM e passa dal gioco al giocatore, che così viene transustanziato. Difficilmente mi sono sentito pura volontà come sono stato concentrato e consapevole giocando a DOOM. Ad una certa, semplicemente non pensi a “pigia il bottone per sparare” ma solo “spara!” e questo fa tutta la differenza.

Un paio di esperienze sono paragonabili a quella che si prova quando padroneggi DOOM: la frenesia della caccia di Bloodborne, quando arrivi in quella condizione più mentale che (virtualmente) fisica, per la quale qualsiasi nemico ti si pari davanti non ne hai più paura; Vampire Survivors, quando capisci come deve funzionare il gioco e inizi ad incartare le combo giuste.

Faccio risalire questa specie di magia al gameplay talmente ridotto all’osso che può essere riassunto nel binomio “CamminaSpara” che a dirlo è più facile che farlo. Quanti giochi si pongono lo stesso obiettivo e quanti hanno la stessa cristallina chiarezza di intenzioni? DOOM è la totale assenza di maschere e di perdite di tempo ribadita all’estremo sia attraverso le gag di conversazioni a proposito di narrativa sci-fi infodump di serie b interrotta di botto, sia con un level design che sposa la medesima chiarezza di intenzioni fino a quando tu giocatore non decidi che devi andare a recuperare tutti i collezionabili nascosti.

DOOM fa parte di quella serie di giochi esperienziali per i quali non esiste nessuna trasposizione possibile sperando di riprodurre le medesime sensazioni. Io posso provare a spiegarvi quello che ho provato giocandoci, perché per me è così importante e via dicendo, ma è una concezione ludica estremamente soggettiva, che di quella soggettività vive, arrivata ad un momento per il quale quello schema, quella scarnificazione riesce ad essere totalizzante al punto da aggiungersi ad una serie di esperienza precedenti e diventare sistema. Less is more, al diavolo gli orpelli, gli “abbellimenti”, gli inutili giri di parole, le deviazioni superflue. Non arriverei mai a definire DOOM un gioco minimalista (non ha niente del minimalismo, le sue esagerazioni grafiche sono più baroccheggianti, per poi sbracare completamente nel sequel), ma sicuramente il suo approccio al gameplay è minimalista.

Tutt’altra storia il mio rapporto complicato con Eternal, interrotto al momento del terzo tutorial del lanciamissili, ma quella è un’altra storia.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Doom, agli sparatutto e alle sparatorie, che potete trovare riassunta qua.

Max Wake o Alan Payne: American Nightmare

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Sparammazza | Cover Story

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