Catturare Mostri e creare famiglie con Dragon Quest V | Racconti dell'Ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Se c’è una cosa che nella mia gioventù mi ha occupato più tempo libero di qualsiasi altra è l’attività di cattura mostri: badate bene, non ho vissuto nella Tokyo di Satoshi Tajiri, dove si andava ( in realtà si va ancora, ma non nel bel mezzo della capitale giapponese) a caccia di insetti per allevarli e farli combattere.
No, ero semplicemente un ragazzino degli anni Novanta, che passava la maggior parte della giornata a bighellonare con gli amici e col Game Boy.
Catturare Pokémon, allevare tamagotchi e guardare Digimon alla TV erano esperienze sacre e che in un certo senso mi facevano volare, sognando la libertà di viaggiare e catturare piccole creature che in seguito mi avrebbero volute bene, dopo che le avrei sfruttate per farle combattere e guadagnare soldi.
La cosa più ovvia è che crescendo, mi sono reso conto della crudeltà e dell’illegalità della cosa, ma nel mio mondo idilliaco quello dei Monster Breeder era il prototipo di mondo perfetto: un posto in cui la natura e l’uomo collaborano incontrastati e che sovrastano ogni tipo di difficoltà.
Tuttavia, quello che ignoravo è che Pokémon non nasce dal nulla, bensì è un JRPG che prende spunto sicuramente da Shin Megami Tensei, ma soprattutto da Dragon Quest V.
Ho ignorato l’esistenza di questo gioco fino all’epocale lancio europeo dell’ottava iterazione dei titoli di Yuji Horii, che mi svelò l’incredibile serie che ha posto delle radici solide a quello che doveva essere un JRPG.
Iniziai a scoprire questa serie dall’ottavo capitolo, ma ricordo che le riviste di settore citavano molto spesso il quinto episodio della saga, che aveva delle meccaniche di mostri catturabili simili a quella vista sul gioco PS2 (che però era limitata solo alle battaglie nell’arena dei mostri).
Era il 2006, ormai facevo la terza media, dunque sapevo già utilizzare il selvaggio internet alla ricerca di rom per il super nintendo, così ho scaricato la versione americana di Dragon Quest V, pensando alla sfortuna di non conoscere l’idioma nipponico: infatti, nel 2004 è uscito anche un remake per l’ultima console Sony dell’epoca, ad opera di Arte Piazza, che mi provocava la stessa salivazione di un san bernardo davanti a una bistecca (e forse, pure la mia).
Però, udite udite, della mia prova di Dragon Quest V del 2006 non ricordo assolutamente nulla. Penso che non fosse scattata la scintilla del vero amore, o forse l’inglese della rom mi aveva spaventato e l’ho lasciato lì, insieme al vocabolario della lingua d’Albione. La pigrizia è comunque un'arte che in qualche modo va alimentata.
Da lì in poi, quasi mi ero dimenticato del gioco in questione: dopotutto ho passato più di 170 ore sull’ottavo capitolo della serie di Enix, che me ne facevo di un altro JRPG potenzialmente così lungo? Ahimé, ero giovane e ingenuo e dovetti rimandare la scoperta dell’affascinante avventura che mi avrebbe accompagnato per parte dell’adolescenza, quando un remake di Dragon Quest V arrivò su Nintendo DS.
Io non avevo la console a doppio schermo creata dalla casa di Kyoto, ma tanto bene, la mia ragazza l’aveva: bianca, candida e tenuta bene, aspettava solo un ragazzino con le mani unte e sudate per metterci dentro delle cartucce che l’avrebbero inesorabilmente consumata. Così, mi feci prestare il suo DS e venni preso subito dall’intreccio imbasti da Enix nel 1992. Ricordo che pensai subito a quanto fosse attuale ancora quel plot e quanto l’adattamento, per i miei gusti, fu magistrale: dopotutto, in quel periodo mi è capitato di giocare per la prima volta Final Fantasy IX su PSP, e di amare alla follia l'adattamento italiano.
Di conseguenza, non potevo che essere dannatamente contento di leggere cose in dialetto sullo schermo: in un certo qual senso, quel tipo di adattamento mi divertiva anche perché probabilmente la mia professoressa d’italiano non sarebbe stata d’accordo riguardo a un tipo di scrittura del genere: se avessi provato a usarla in un saggio breve o in un tema, mi avrebbe scorticato la media a suon di 4. Tuttavia, a quell’età ero sufficientemente grande da comprendere, apprezzare e capire il sistema di gioco che c’era dietro, consapevole del fatto di giocare a un titolo del 1992.
E lì capii che sì, magari la favoletta di Tajiri in mezzo all’erba alta a catturare gli insetti fosse pure vera, ma era altrettanto vero che il sistema di cattura e di battaglia fosse comunque in parte ispirato a questo capolavoro, che non smetteva di meravigliarmi solo per le meccaniche di monster breeding, ma anche per il suo stint puramente familiare.
Probabilmente, se fossi fuori dalla rubrica Racconti dell’ospizio non avrei citato così tante esperienze personali che poco aggiungono al valore del gioco, ma ehi: sto per diventare vecchio e mi immagino dentro a un ospizio immaginario a raccontare le mie memorie ai giovani impazienti, dunque zitti tutti che arriva il pistolotto intimo.
Il periodo in cui giocai a Dragon Quest V era un tronfio di tumulti familiari: io mi ero fidanzato da un annetto e vedevo letteralmente la mia famiglia sfaldarsi fino ad arrivare a un ovvio divorzio, che sinceramente non è che mi abbia sconvolto più di tanto. Dopotutto, avevo tra i 16 e i 17 anni, ho subito notato che qualcosa si stava inclinando nel rapporto tra mio padre e mia madre.
Paradossalmente, ricordo che la cosa che mi fece più male a livello emotivo fu la trama e la progressione del plot dell’opera di Yuji Horii: perchè alla fine, il perno delle vicende di quel capitolo di Dragon Quest era la famiglia, l’importanza di rimanere uniti, crescere insieme e passare, in un certo qual senso il testimone.
Qualcosa in completa antitesi col momento che stavo vivendo e che straziò un pochino il mio debole cuoricino, che in realtà si riprese subito e a gran ragione: la ragazza che mi prestò il DS bianco per godermi quell’esperienza (e una miriade di altre che portò alla disgregazione molecolare di quel DS), era accanto a me, e lo è ancora.