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eXistenZ #25 – Street Fighter: Assassin's Fist, la noia con gli schiaffi intorno

eXistenZ #25 – Street Fighter: Assassin's Fist, la noia con gli schiaffi intorno

eXistenZ è la nostra rubrica in cui si chiacchiera del rapporto fra videogiochi e cinema, infilandoci in mezzo anche po' qualsiasi altra cosa ci passi per la testa e sia anche solo vagamente attinente. Si chiama eXistenZ perché quell'altro film di Cronenberg ce lo siamo bruciato e perché a dirla tutta è questo quello che parla proprio di videogiochi.

La storia di Street Fighter: Assassin's Fist è per molti versi simile a quella di Mortal Kombat Legacy (a proposito, ho chiacchierato qui della prima stagione e qui della seconda). Anche in questo caso si parte infatti da un cortometraggio di prova, realizzato nel 2010 da Joey Ansah e Christian Howard, un paio di atleti, registi, coreografi e chissà che altro, che si sono messi lì di buzzo buono e hanno tirato fuori tutta la nerdaggine che si nascondeva nei loro crani. Il risultato è Street Fighter: Legacy, tre minuti circa di pizze in faccia fra Ryu e Ken, con cameo di Akuma nei primi istanti. I due sopra citati interpretano rispettivamente il demoniaco villain e il biondo in rosso, mentre nei panni di Ryu c'è tale Jon Foo. Il cortometraggio, pubblicato con la benedizione di Capcom e accompagnato dai temi musiali classici del videogioco, per essere sostanzialmente un fan film è obiettivamente una bomba e infatti l'internet geek implode con milioni di visualizzazioni. Lo ripropongo qua sotto.

Street Fighter Legacy esce, come detto, a maggio 2010 e, dopo il botto iniziale, le acque si calmano. Ma Ansah, Howard e compagni continuano a lavorare dietro le quinte. Al San Diego Comic-Con del 2012 annunciano di stare lavorando su una vera e propria serie, che partirà da quel concept e sarà intitolata Street Fighter: Assassin's Fist, e qualche mese dopo lanciano una campagna di raccolta fondi su Kickstarter, fissando come obiettivo da raggiungere un totale di 625.000 sterline. Non ce ne sarà bisogno: dopo dieci giorni, con poco più di 16.000 sterline raccolte attraverso le donazioni dei fan, la campagna viene chiusa perché dietro le quinte si è fatto avanti uno sponsor misterioso.

A giudicare dalle inserzioni pubblicitarie nel prodotto finito, possiamo immaginare che lo sponsor sia Honda, ma è anche probabile che si sia messa in mezzo Capcom, considerando che comunque il progetto gode della sua approvazione ufficiale, che a un certo punto c'è un'adorabile marchetta nei confronti di Mega Man e che la serie viene pubblicata in questi giorni, con il giusto tempismo per alzare la fotta in vista di Ultra Street Fighter IV. Senza contare che c'è anche una partecipazione speciale di Yoshinori Ono che, come al solito, si diverte a fare lo scemo. E insomma, il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: una serie per il web in dodici puntate, pubblicate tutte assieme su Machinima, che raccontano dell'amicizia di Ryu e Ken, del loro addestramento presso il dojo di Gouken e delle "origini segrete" di suo fratello Gouki/Akuma. Ve la sbatto tutta al gran completo qua sotto.

Quel che ne è venuto fuori, dunque, è una miniserie piuttosto corposa ma che va – forse saggiamente, forse no – in una direzione opposta rispetto a quella intrapresa da Kevin Tancharoen con il suo adattamento "corale" di Mortal Kombat. Qua infatti seguiamo, come detto, le vicende di pochi personaggi, cosa che offre la possibilità di approfondirli in maniera ricca senza perdersi dietro a mille apparizioni e correre quindi il rischio di trascurare alcuni protagonisti. In questo senso, la scelta è vincente. Allo stesso tempo, però, questa direzione, unita a una certa tendenza alla logorrea, rende Street Fighter: Assassin's Fist a tratti un po' pesante, nel momento in cui si concentra forse un po' troppo sul raccontare in maniera serissima e drammaticissima una storia per ampi tratti, diciamocelo, stupidina e oltretutto messa in mano ad atleti che non sanno dove stia di casa la recitazione e pure sul fronte del carisma non son proprio cinture nere.

Il primo episodio parte alla grande, con subito un bello scambio di ceffoni fra Ryu e Ken in cui emerge immediatamente il livello di fedeltà e rispetto assoluti che Ansah e Howard hanno per il videogioco. La cosa sconfina anche un po' nel ridicolo, perché veramente si respira quell'aria da cosplayer sfigatelli, specie nel caso di Ken, che con quella chioma davanti agli occhi non si può guardare, ma il combattimento funziona, è diretto da un regista a cui interessa mostrare bene quel che accade e mette in scena un po' tutte le mosse originali, inquadrate come si deve, con tanto di personaggi che ne pronunciano il nome. Insomma, bene.

Ansah e Howard interpretano ancora i ruoli di Akuma e Ken, ma Foo è stato sostituito da Mike Moh in quello di Ryu. Quello al centro è Padre Maronno.

Ansah e Howard interpretano ancora i ruoli di Akuma e Ken, ma Foo è stato sostituito da Mike Moh in quello di Ryu. Quello al centro è Padre Maronno.

Il problema è che poi la storia compie un passo indietro "temporale" e s'incarta sulla sua voglia di raccontare i grandi drammi esistenziali che muovono i protagonisti. E se da un lato si apprezza, per carità, il tentativo di non trasformare il tutto in una buffonata, dall'altro mi sembra onestamente indifendibile l'idea che in una serie basata su Street Fighter, un picchiaduro in cui la storia era limitata a un paragrafo stampato a schermo dopo il combattimento finale, per la maggior parte del tempo i personaggi non facciano altro che parlare. Insomma, credo sia lecito pretendere che, perlomeno, volino un po' di schiaffi a ogni puntata. E invece qua ci si ritrova a guardarne qualcosa come quattro consecutive in cui non si vede mezzo combattimento. E un po' piange il cuore.

La putenza del maligno ti cambia faccia meglio della McNamara/Troy.

La putenza del maligno ti cambia faccia meglio della McNamara/Troy.

Poi, certo, è inevitabile che, se pianifichi due ore di storia incentrate su appena quattro personaggi, beh, c'è un limite a quante volte li puoi far combattere. Ma allora, forse, l'errore è alla base. Anche perché poi il racconto è davvero una storiellina esile, che viene in più punti palesemente tirata per le lunghe oltre il necessario e che oltretutto nella buffonata ci sconfina abbastanza per quanto riguarda il percorso narrativo del villain di turno, un giapponese che entra in una grotta, viene posseduto dal maligno e ne esce fuori britannico di origini africane. Un super cattivone demoniaco invasato che attende da una ventina d'anni di trovar vendetta, si presenta incazzato nero (pun not intended) di fronte alla sua nemesi, scopre di avere ulteriore gente che gli piacerebbe fare a pezzi, si sente dire "no, più tardi" e accetta la cosa come se niente fosse, girando i tacchi e tornando a parcheggiarsi nella grotta. Per un anno. Fino a quando vede degli hadouken che volano a caso nel cielo e si rende conto di essere stato preso per i fondelli.

Per fortuna, a tenere alta l'attenzione fra i (pochi) combattimenti ci pensano la cura più che dignitosa della produzione, anche se siamo ben lontani dal poter gridare al miracolo, e in generale l'evidente amore degli autori per quel che raccontano, espresso anche in un tripudio di fan service, con citazioni e omaggi che escono dalle fottute pareti e si rincorrono fra di loro. Il risultato è un qualcosa che da un lato lascia perplessi (è previsto che si veda della gente che si mena nel suo film dedicato alla gente che si mena?) ma a cui dall'altro bisogna riconoscere di essere la miglior roba "live action" dedicata a Street Fighter che si sia mai vista. Certo, è la vittoria nel campionato della sfiga, ma è una vittoria che arriva in larga parte per meriti propri e assolutamente non solo per demeriti altrui.

FRACT OSC è come Alison Brie

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