Hellbound. No, non quello con Chuck Norris
Dopo il clamoroso successo mondiale della serie di Hwang Dong-hyuk, probabilmente il nome più digitato (e mal pronunciato!) degli ultimi due mesi sul globo terracqueo, Hellbound è pronto a raccogliere lo scomodo testimone di Squid Game. Compito sicuramente non facile ma non del tutto impossibile, specialmente se teniamo conto che Hellbound è la serie TV più vista di Netflix e più popolare di questa settimana, avendo accumulato più di quaranta milioni di "ore viste" durante i primi tre giorni dall’uscita. Come se questo non bastasse, sono in produzione più di venti serie coreane tratte da manwa, libri e videogiochi entro il 2022/2023, per la piattaforma di Reed Hastings e Marc Randolph. Ma se vi dicessi che questo nuovissimo K-Drama di Netflix fosse persino migliore dell’intoccabile Gioco del Calamaro?
Lo sappiamo tutti, Squid Game è stato un autentico fenomeno mediatico e sociale che ha travolto completamente non solo gli spettatori della piattaforma streaming più famosa di sempre, ma in maniera più sottilmente inquietante è diventato un’autentica fissazione per milioni di spettatori e fan sparsi in tutto il mondo.
Se serve qualche dato per realizzare cosa sia stato esattamente il fenomeno, lo abbiamo. Le ricerche online relative al paese di provenienza sono cresciute del 135% dopo la messa in onda dello show, così come quelle relative all’Isola che fa da sfondo alla serie (Jeau) portandole ad un incredibile +132%. Il costume di Squid Game durante lo scorso Halloween ha avuto un incremento nelle digitazioni online pari al 9.900%, ed infine l’aumento di volume delle ricerche specifiche per “Squid Game Costume Halloween”, ha raggiunto un picco del 17% sui motori di ricerca più noti.
Questo dimostra quasi empiricamente, oserei dire, come gli appassionati della serie non si siano limitati solo a guardare le puntate a cervello spento, ma sia scattata in loro la genuina curiosità di saperne di più su questo misterioso paese, del quale in passato abbiamo sentito parlare poco o per niente e solo in aria di Oscar, arrivando persino a chiederci che fine abbia mai fatto l’inquietante bambola gigante “Younghee” utilizzata per le riprese della serie (è tornata al Macha Land, un parco a tema di carrozze).
Squid Game ha registrato il miglior esordio nella storia della piattaforma, in termini di utenti si è trattato di un successo a dir poco clamoroso che ha detronizzato ogni altra serie prodotta dalla società americana, ben centoquarantadue milioni di spettatori nelle prime quattro settimane dal lancio si sono perse nel disagiante, inquietante, splatteroso K-Drama con lo sfortunato ma determinato Gi-Hun e i quattrocentocinquantacinque scommettitori.
Era dunque quantomeno ovvio che Netflix avrebbe mostrato nuovamente un certo interesse per i prodotti televisivi sudcoreani, e anche in tempi relativamente brevi, in aggiunta. Ad onor del vero c’è una certa forma ricorsiva, financo decisionale, da parte di Netflix, e cioè quella di affidarsi ed inseguire prodotti asiatici che sono già fenomeni in patria, specialmente quelli che riguardano o raccontano la cinematografia della Corea del Sud, considerata da molti giornalisti del settore l’indiscussa “New Hollywood”.
La cultura pop coreana non è mai stata così ampiamente consumata dal pubblico internazionale come oggi. Nemmeno ai tempi dei sofisticati drammi di Kim Ki Duk avevamo mai raggiunto un simile interesse diffuso per questo paese. Band K-pop come BTS e BlackPink, il premio Oscar di Bong Joon-ho e il suo Parasite, il recente debutto di Squid Game, il fantastico Arthdal Chronicles (non basata su nulla ma originale) hanno visto il mondo abbracciare con tutto il cuore il cinema, la TV e la musica coreana. Netflix ha contribuito significativamente a guidare gli spettatori occidentali lungo i meccanismi della televisione coreana e i suoi spettacoli, consentendo al pubblico di immergersi nel mondo ricco, variegato ed affascinante dei cosiddetti K-Drama.
Serie TV come Vagabond, A Korean Odyssey, Outcast, My name, Lovers of the Red Sky, Vagabond, Kingdom, Stranger, The Uncanny Counter possono fornire solo una vaga percezione di quanto questo linguaggio stia costruendo, tra lacrime, risate commosse e combattimenti coreografati in maniera veramente eccezionale, un successo clamoroso; ampiamente consolidato in patria, e secondariamente e opportunamente indirizzato verso i gusti del pubblico internazionale che mai come ora è affamato di produzioni coreane.
Assai meno ovvio era ipotizzare che Netflix, sia in termini di qualità, soggetto scelto, regia e resa su schermo, avrebbe fatto nuovamente centro, presentando, per la seconda volta e in pochi mesi un ennesimo prodotto estremamente interessante in ogni suo aspetto: Hellbound è un dramma sociale e religioso che abilmente gioca sui generi e che pone profondi interrogativi allo spettatore, che alza costantemente la posta e regge un ritmo stratosferico, narrativamente parlando, almeno per questa prima stagione. Si tratta di una serie scritta in maniera semplicemente meravigliosa ed è a dir poco paradossale che inizi con un trino di demoniaci gorilla fatti di fumo che trascinano un malcapitato peccatore all’inferno, dopo averlo sbattuto contro macchine, muri e qualsiasi cosa, come se fosse una fragile bambola di pezza.
Il visionario creatore Choi Gyu-seok e il regista di Train to Busan, Cursed e Penisula (Yeon Sang-ho) autore anche della webcomic da cui è tratta la serie, riescono a spingere lo show attraverso una trama vibrante ricca di avvenimenti; bilanciando il tutto attraverso un commento sociale e una palpabile tensione che, miracolosamente, emerge nel giro di soli sei episodi, con una compostezza visiva e narrativa che raramente trova spazio nel piccolo schermo; l’ultima puntata della durata di un’ora, poi, è quasi un film.
La posta in gioco del resto, è fissata nei concitati minuti del primo episodio: mentre l'orologio segna le 13:20, un uomo dai nervi letteralmente a pezzi controlla febbrilmente l’ora del suo inseparabile smartphone. I secondi scorrono, un rivolo di sudore imperla la sua fronte a dir poco terrorizzata.
Il magro volto scavato e i suoi occhi impazziti schizzano sugli avventori di un bistrot che stanno tranquillamente consumando un tipico pranzo coreano. L’uomo sa di aver ricevuto la condanna, e sa che i segugi infernali (“Hellbound” appunto) verranno presto a reclamarlo, e questo accadrà nel giro di pochi minuti, come del resto mostra lo stesso trailer/teaser della serie di presentazione.
Quello che seguirà è - circa circorum - l’innesco dell’intera vicenda, che tuttavia non riguarda minimamente il terrore generato dai mostri, l’idea di combatterli, o di arginare questo misterioso fenomeno che si ripete ciclicamente. Le tre bestie antropomorfe simili ad Hulk (o a Swamp Thing a dirla tutta) che appaiono dal nulla e scompaiono solo dopo aver fatto assaggiare un pezzettino dell’inferno al malcapitato di turno, tra schizzi di sangue e ossa fratturate, tuttavia non sono affatto “le star” indiscusse di questa serie TV; per niente.
In seguito apprenderemo che a questa prima vittima era stato dato un ultimatum, definito “dimostrazione”, da una faccia fluttuante che pare uscita dal videogioco Ghost Hunter. Il faccione spiritico ha comunicato a questo povero ragazzo esattamente quando sarebbe morto, ora e giorno precisi: sarebbe stato mandato all'inferno a causa dei suoi peccati. La serie di Yeon mescola questo orrore bizzarro che sembra uscito da un manga di Junji Ito o Katsuo Umetzu (Umezz), qualcosa da cui non è possibile sfuggire in alcun modo, con cui non è possibile confrontarsi, comunicare e ovviamente combattere, il tutto coadiuvato da profonde riflessioni su cosa meritiamo come esseri umani da un’entità che noi definiamo “essere supremo” e che è oggetto di venerazione di tutti i popoli, da diversi secoli.
Cosa potrebbe accadere dopo la scomparsa dei gorilloni nell’attonita cittadinanza? Come verrebbe accettata questa manifestazione esoterica a dir poco crudele e brutale? Cosa succederebbe se queste apparizioni divine - o per meglio dire, demoniache - si ripetessero con infallibile e certosina precisione nel corso di mesi, e poi giorni, ore, e infine minuti?
Le persone normali perderebbero la testa? Come reagirebbero i non credenti dinnanzi ad un’ira divina razionalizzata come una vendetta dell’Altissimo per i nostri peccati? Come gestirebbero le persone religiose il significato di un simile volere divino? Come sfrutterebbero gli opportunisti la situazione? I credenti arriverebbero a nascondersi pur di non mostrarsi peccatori davanti alla propria famiglia? Per ottenere la misericordia di Dio, cosa sarebbero disposte a fare le persone?
Come avete sicuramente realizzato, questa serie propone temi alti e sofisti, senza pur via rinunciare ad un intrattenimento di grana grossa.
Ecco che dopo l’inizio che strappa certamente un sorriso, Il tema di Hellbound si fa largo. La manipolazione religiosa e morale, la paura della morte e il senso dell’esistenza umana, la condanna e naturalmente la redenzione. Dopo mostroni pupazzosi spaccaossa (a dir la verità sono accarezzato dall’idea che questi effetti speciali digitali incongrui siano stati fatti male apposta) ecco che emerge un livello più filosofico/sociologico che si interpone per l’ennesima volta come una lente sociale ed artistica che deforma il racconto fantastico, quel tanto che basta per garantire uno show brillante e inaspettato. Pone domande e non offre risposte assolute.
Da lì in poi, Hellbound si muove metodicamente e con una certa compostezza per interrogare lo spettatore sui temi portanti del racconto, attraverso l’inserimento di diversi personaggi che rendono l’intera storia avvincente e inaspettata. Il detective Jin Kyung-hoon (Yang Ik-june) è incaricato di indagare sull’omicidio del pover’uomo carbonizzato dai tre emissari demoniaci, avvenuto nel bel mezzo della strada principale di Seul, e non poteva esser diversamente nel paese che insegna la programmazione informatica e l’utilizzo di device tecnologici fin dall'asilo. L’omicidio esoterico è stato ripreso da un numero incalcolabile di telefonini dei cittadini sconvolti, spaventati e curiosi occorsi sul posto, finendo pure su YouTube. Ormai sono ampiamente dimenticate le epoche in cui i detective di X-Files armeggiavano con i floppy disk per attestare la verità sugli avvistamenti UFO in Arizona, cercando di nasconderli goffamente nelle prese di ventialzione dell’ennesima roulotte dispersa nel deserto. Oggi non si sfugge all’occhio guardiano dei cellulari che catturano tutto quello che ci circonda sia pur esso tangibile o di natura mistica e sorvegliano i nostri spostamenti (…)
Successivamente spunterà appunto una misteriosa setta religiosa che afferma con ostinata convinzione che le creature sono in realtà sono “angeli” che agiscono per volontà divina di Dio. Agli occhi del presidente della neo-religione “Nuova Verità” il compassato e sottilmente inquietante Jung Jin-soo (Yoo Ah-in) questi peccatori hanno ottenuto ciò che meritavano alla fin fine, e il resto del mondo, specialmente, il resto della Corea, farebbe bene a rendersi conto della nuova strategia di Dio che pare essere alquanto abramitica ma che non lascia scampo ad interpretazioni sibilline: se infrangi la dottrina, rubi, bestemmi, o menti, un giorno potresti ricevere la chiamata, e trovarti a contare i giorni, i minuti, le ore che ti restano, prima di essere trascinato all’inferno. Una prospettiva a dir poco agghiacciante, che ricorda da vicino, il delirante ma divertentissimo Drag me to Hell dei fratelli Raimi, dove la povera Christine Brown contava letteralmente i giorni che le restavano prima che la terribile Lamia, il demonico caprone nero degli zingari che usano per i loro atti più blasfemi (cit), la trascinasse fisicamente all’inferno.
Tuttavia né il presidente della misteriosa organizzazione religiosa, né il taciturno detective, né Min Hyejin (Kim Hyun-joo), l’affascinante avvocato che sta indagando sui traffici della setta, sono veramente importanti. Nè riesce a esserlo la “Punta di freccia”, il braccio armato della setta guidato da uno sbraitante santone.
In effetti, nemmeno le sbrigative storie dei peccatori condannati, ad esclusione di un paio, mantengono a lungo il centro l'attenzione. Hellbound non si focalizza sull’allestire personaggi degni di nota, non è di suo interesse costruire ruoli carismatici. La serie non pone molta attenzione sui personaggi che si muovono sul palco, non vuole illuminare i loro contorni, se non quanto basta.
Quello che realmente interessa è trasformare un’indagine procedurale su bizzarri omicidi di origine pseudo divina in un vero e proprio saggio sulla società attuale. Il peso dei social media, il concetto di fede e religione, il senso dell'esistenza umana, la pena e la colpa, la redenzione dell'animo umano, la fragilità e la violenza, l'indottrinamento e il giustizialismo. Da soliloquio religioso ad autentica tragedia greca, restringendo l'obiettivo ad ogni salto narrativo per stringere sempre di più il cappio attorno allo spettatore, attraversando la scena con passo felpato e una regia abile nel mostrare tutto senza sbagliare un solo, singolo, passaggio. Come, ad esempio, quando trasforma coerentemente alcuni personaggi della storia senza utilizzare una sola, singola, riga di dialogo, rendendo le loro azioni e i loro mutamenti semplicemente coerenti.
Ciò che potrebbe farlo sembrare, quantomeno all’inizio, uno spettacolo grottesco e cialtrone, vuoi anche per i VFX non certamente allo stato dell’arte, un brodo di caos intenzionale e primordiale che si scapicolla evitando accuratamente tutto ciò che renderebbe la storia fin troppo ordinata, ben presto mostra una pianificazione attenta e misurata che è a dir poco entusiasmante. La narrazione di Hellbound scorre agilmente tra i personaggi e non sui personaggi, mentre questi rispondono agli eventi centrali del dramma fornendo l'obiettivo più interessante della storia in quello specifico momento. Lo show ha indubbi punti di forza, specialmente quando nella sia metà esatta decide di costruire un secondo arco narrativo che in una serie “classica” sarebbe arrivato alla seconda stagione, ma qui spezza la narrazione e in sole tre puntate riesce a commuovere.
Adattando sette puntate del suo fumetto, Choi è in grado di costruire uno spaccato neorealista, ponendo costantemente ed abilmente le basi per il passo successivo; nell'esecuzione, di contro, Yen non si arrende mai, registicamente parlando, fino alla fine. La serie prende in giro la religione a scopo di lucro, l'appetito del pubblico per la violenza e la redenzione, trovando sempre una prospettiva interessante da raccontare. Entro la fine della stagione le numerose narrazioni focalizzate di Hellbound si fonderanno in una nuova sorprendente realtà, ancora una volta scavalcando le regole secondo cui il mondo sembra voler funzionare, preferendosi agganciarsi alla serie webtoon e senza alcun timore, portando la storia a nuove intuizioni. A dir poco consigliato agli orfani di Squid Game. Ci può essere (e probabilmente ci sarà) ancora più mistero in questa storia nelle future stagioni, e io li divorerò con tutta l'intensità di una scimmia fumogena soprannaturale, statene certi.